NuoveStorie_Le vacanze e l’agonia dei signori Lagonia

Al giro di boa della rassegna “Nuove Storie/Nuove Famiglie” 2018, dall’8 al 10 maggio, al Teatro Elfo Puccini di Milano, la compagnia Teatrodilina ha portato in scena “Le vacanze dei signori Lagonia”. Divertente commedia simil dialettale, racconta delle amorevoli scontrosità di una coppia calabrese in là con gli anni; eppure non manca di alludere, con intelligenza e poesia, a questioni delicate e importanti, capaci di spostare lo sguardo un po’ più in là verso la riedizione tutta nostrana di un beckettiano “Giorni felici” dal retrogusto dolce-amaro.

Drammaturgia interessante: da un lato ci presenta questa coppia di mezz’età, dalle dinamiche sclerotizzate ed esilaranti, che decide di trascorrere una giornata al mare, prodromo perfetto per un plot alla commedia all’italiana con tanto ombrellone, pinne e occhiali e pic nic d’italica tradizione; dall’altra, però, si avverte che qualcosa che non torna. È come se ci fosse un duplice livello: la relazione, agita, fra i due – e fatta di una quotidianità dimentica del palpitare, che forse colorava i loro primi turbamenti – e tutto quel non detto, depositato, sedimentato e cementificato per quarant’anni, che ora riaffiora. Ci arrivano chiarissimi nell’affettata ostentazione cinguettante di quei: “Ferdina’, Gioia mia…”, anafora delle incessanti richieste con cui Marisa mette in croce il povero marito e nei grugniti sommessi, quasi fossero gli sconnesi rumori di un motorino dall’avviamento difficile, con cui lui non manca comunque di assolvere ai suoi bisogni. Già questo basterebbe a riportarci alla suggestione della Sora Lella in “Bianco, Rosso e Verdone”: come non ricordare il tormento del: “E allungaje ‘e gambe, aristendije ‘e gambe, aritiraje ‘e gambe, aricoprije ‘e gambe…” dello sventurato nipote, fino al suo esplodere in quel liberatorio: “Io jee tajerei quee gambe!”? Francesco Colella qui è bravissimo nel trasformarsi in una figura mitologica dalle riminiscenze prosaiche: imponente mezzobusto di matrona in trono, riesce a scindere perfettamente fra la gestione di gambe, così immobili da parere di cera, e una iper gestualità di braccia e tronco, coronato da un volto dai repentini scoppi paonazzi – vuoi per le risa, vuoi per i malori – e acceso da occhi attraverso cui possiamo costantemente leggere quel che le parole non dicono. Accanto a lei, Ferdinando: un Mariano Pirrello dalla fisicità sapientemente rallentata e scontrosa, capace di interpretare il ruolo di coprimario in maniera non meno godibile e convincente.

Eppure non è solo di un menage-a-deux, che si sta parlando; lo intuiamo presto. Già il tema musicale che apre l’azione scenica è quell’aria del “Rinaldo” di Händel (“Lascia ch’io pianga mia triste sorte…”), che torna, variamente declinato e drammaturgicamente rielaborato, in più occasioni: se un primo passaggio potrebbe far pensare a una lettura ironica attinente alle gioie-e-dolori di un’intera vita matrimoniale, il suo ripetersi e i piccoli strappi che, all’improvviso, lasciano trasparire sconnessioni, lo dicono chiaramente che non si esaurirà tutto nella recita della gita al mare; s’insinua una sorta di disagio allarmante. Proprio per questo, la scrittura è interessante: perché se da un lato pastura il pubblico con l’intero campionario dei cliché di certi telefilm, qui in salsa alla ‘nduja, dall’altro poi è fulmineo nel riavvolgere il mulinello… Sarebbe un attimo farci guizzar fuori dalle nostre acque agitate solo dal fremito delle risa, ma la scelta è di “nuotare costa costa”, come Marisa supplica il marito di fare. Così scelgono di restare nel mare nostrum della commedia all’italiana, gli autori Francesco Colella e Francesco Lagi, inventandosi, all’occorrenza, una capriola o una trovata registica inaspettata. Non succede, del resto, così anche nella vita? Ogni volta, un buffetto bonariamente ironico riesce a sciogliere le tensioni, magari giusto un attimo prima che la coppia scoppi, trascinandosi tutto in un’esplosione irrimediabile E però non si parla solo di coppia, qui: qui si parla di malattia e di povertà, di disoccupazione e di lutto, di sopportazione e di dignità; si parla delle disabilità della vecchiaia e della tenerezza che resta sul fondo del barattolo di una vita spesa insieme. Ecco forse di cosa parliamo, quando parliamo d’amore e l’idea che, nonostante tutto, possa ancora esserci una via di salvezza, fosse pure in controcorrente, potrà sembrare da commedia sentimentale, ma fa bene al cuore, di contro ad un ce ne andiamo per non darvi altre preoccupazioni (citazione da “L’esattore” dello scrittore greco Petros Markaris, scritto nel 2011, da cui trae spunto l’omonimo spettacolo di Deflorian/Tagliarini) Tutt’attorno la preziosa bravura di due attori capaci di farci guardare direttamente negli occhi di quegli anziani genitori, che forse non abbiamo neanche più.

Dall’11 al 13 maggio “Nuove Storie” prosegue con “Cannibali” di Kronoteatro.