NuoveStorie_Stabat Mater fra identità e conformismo

La terza proposta del festival “Nuove Storie/Nuove Famiglie” 2018, al Teatro Elfo Puccini di Milano, è stata il Premio Hystrio-Scritture di Scena 2017, “Stabat Mater” di Liv Ferracchiati. Secondo capitolo della Trilogia sull’Identità (dopo “Peter Pan guarda sotto le gonne” e prima di “Un Eschimese in Amazzonia”), ancora una volta il focus non è tanto sulla tematica del pur esplicitotransgenderismo; ci si sofferma piuttosto a indagare il difficile percorso di crescita/individuazione, che nella nostra società sembra spostarsi sempre più verso un’età anagraficamente già adulta.

La storia, dall’ironia alla Woody Allen,si legge nella motivazione del premio, è quella di una ragazza tale esclusivamente nella fisicità biologica, esibita, ma poi subito rimossa, solo nella prima scena. Ci viene mostrata in boxer, mentre i suoi seni di giovane donna vengono inondati da una luce patinante e quasi caravaggesca, che fa a pugni con quel turpiloquio graffiante, cifra forse di una mascolinità anti-cortese; eppure, novello Cyrano de Bergerac, li bestemmia a quel raggio lunare, i disagi fisici dell’esser femmina.
È cortocircuito.

Di fatto si comporta, ragiona, sente e vive come un maschio – alpha, ci tiene a puntualizzare – e, come a certi maschi capita, è rimasto invischiato in un rapporto uterino con la madre: le ostenta sufficienza, ma lo sa di esserne dipendente… e ironicamente ce lo mostra negli spaccati di dinamiche relazionali con la fidanzata. Infatti è una commedia – anche in questo torna Woody -, pur nella partitura drammaturgica che racconta della psicanalisi (non a caso) di valutazione per l’eventuale cambio di sesso (nella fattispecie) e nella sua Weltanshauung nichilistico-sarcastica alla Bartleby. Ma non si arriva all’inazione, qui: il/la protagonista in fondo è abbastanza “intelligente” – in realtà, di sé dice: “molto” – o forse abbastanza narcisista – nel senso bonario in cui lo sono certi adolescenti un poco istrionici -, da “non suicidarmi”, dice, eppure “da potermi suicidare”. Il racconto del suo maldestro tentativo di autosoppressione arriva sconclusionato ed esilarante come lo sarebbe la mise-en-espace di un liceale tutto intento a far ridere la combriccola dei compagni e, fra questi, in special modo “lei”… Eccolo, il punto; e lo ammette: “Eravamo felici – dice –, ci amavamo”. Sospira, sulla poltroncina della psicologa, ricordando i bei tempi dell’idillio infantile con la madre, in cui, spettatore privilegiato, poteva godere delle risate cristalline che le sue stesse imitazioni riuscivano a far sgorgare dal petto della donna; eppure non è solo lo struggimento per l’impossibile ritorno a quell’eden beato, l’unica causa della sua identità sessuale. Lo spiega c on dovizia di particolari, alla dottoressa, quel suo essere un uomo nel corpo di una donna; fino a sedurla.

Complice la credibile, garbata, misurata e generosa prova attorale di Alice Raffaelli, alla fine non vediamo più quel corpo femminile contenuto in fasce costrittive e abiti maschili, ma un adolescente (nonostante i suoi 27 anni) mingherlino, nevrotico, ironico, intelligente, arguto, colto e curioso come forse sarà stato il giovane Allen alle prese con la sua “yiddishe mame”. Suo contraltare dalla presenza strabordante è quest’ingombrante figura materna ottimamente restituita, nei contributi video, da una Laura Marinoni efficacemente diretta sul registro della sottrazione: fisicamente sta, o forse stabat – con riferimento a un passato che racconta una situazione oramai risolta e superata -, incombendo come una sorta di gigantografia psicanalitica. Ai piedi di questo simulacro, ma portato in scena – complici le frizzanti Chiara Leoncini e Stella Piccionicon una prosaicità garbata e affettuosa, ecco le umane vicende in fondo di tutti noi esuli figli di Eva e cioè del(la) protagonista e del suo galeotto rapporto da un lato con la Dottoressa/Chiara Leoncini, dall’altro con la fidanzata/Stella Piccioni(da poco vista in scena al Piccolo Teatro di Milano, in “Il teatro comico” riadattato da Roberto Latini). La regia li costruisce entrambi in modo cinematografico, fatto di flash back e di mini set, momentanei fondali di quelle strategia da scacchiera, che significativamente Liv Ferracchiati fa giocare alle poltronicine/postazioni nel reciproco assedio analista/paziente. Rimarchevoli sono lo sfoggio e cambio di abiti di scena, che raramente si concede il teatro, più abituato alla convenzione che alla ricerca di un tal effetto-realtà.

Così, nonostante tutto, il vero messaggio non riguarda che accidentalmente la questione dell’orientamento o dei propri gusti sessuali; la vera discriminante sembra essere fra il lasciarsi sopraffare dalla tentazione paralizzante della normalità o il saper restare fedeli a sé, qualsiasi cosa questo significhi; e un pizzico di autocompiacimento, a quanto pare, non guasta.

La rassegna prosegue con “Le vacanze dei signori Lagonia” di TeatrodiLina, dall’8 al 10 maggio.