NuoveStorie_Cannibali(ci) mostri e la nostalgia del paradiso

Nella rosa degli ultimi tre spettacoli di “Nuove Storie/Nuove Famiglie” 2018 al Teatro Elfo Puccini di Milano, “Cannibali” della compagine ingauna Kronoteatro è andato in scena dall’11 al 13 maggio. Reduci dal Premio Rete Critica 2017 per il Miglior Progetto di Comunicazione, attribuito al loro Festival estivo “Terreni Creativi”, quest’estate saranno alla Biennale di Venezia col trittico inaugurato da questo spettacolo del 2015 e che si completa con “Educazione sentimentale” (2016) e “Cicatrici”, che debutterà proprio a Venezia, in occasione della mini personale (come voluto dal progetto direttivo di Antonio Latella).

Ma, intanto: cosa c’entrano i cannibali, la Sila, i cartoni animati giapponesi e Giacomo Leopardi?

Apparentemente poco o niente, come spesso accade a linguaggi differenti fra loro. Eppure è proprio questa, la cifra-sfida della compagnia: mostrare l’anacronismo delle etichette apposte a incontrovertibile suggello di cosa sia cosa e proporre invece un discorso capace di sconfinare in un sovrapporsi e incrociarsi di piani. Così il documentario sulla Sila, dal sapore retrò e dall’intonazione sentimentale, rimanda a quel paradiso perduto, che probabilmente ha molto a che fare col leopardiano ultimo orizzonte che l’ermo colle e la siepe impediscono di vedere, mentre viviamo in una realtà talmente feroce da essere popolata da tutti e soli cannibali dalle fattezze mostruose e dalla violenza inaudita (come in certi cartoni animati provenienti dal Paese del Sol Levante). Viene introdotta così l’idea dello iato fra un mondo ideale ed edulcorato – probabilmente legato, com’è anche qui, a un bucolico ricordo d’infanzia, che si colora della struggenza del non più raggiungibile – e un hic et nunc dalla polarità di segno contrario. Ce lo mostrano in modo esasperato, il reale. La cornice è quella di un ring, più alluso dalla regia sonora, che riprodotto da una messa in scena realistica, in cui si consuma quel rituale di efferato sopruso, che sembra essere cifra costante di ogni relazione generazionale. Non importa se il vincolo sia quello di padre e figlio, professore e alunno, datore di lavoro e giovane in cerca di prima occupazione o cosa per essi: chiunque detenga una sorta di potere, paia non esiti ad esercitarlo nella maniera più violenta possibile; né fanno eccezione quei ruoli di servizio (lo psicologo, il dentista, il personal trainer, l’infermiere), che, per ben che vada, lo declinano nella variante del passivo/aggressivo fino a farlo esplodere comunque in brutalità.

Questa è la tesi. Lo svolgimento avviene attraverso micro azioni sceniche, più agite che parlate, dallo schema ripetuto: il trillo della campanella (facoltativo), l’inerzia iniziale dei due contendenti e poi l’azione – verbale, ma in special modo fisica e agita -, che vira quasi subito verso picchi di aggressività, giustificati solo dalla persistente suggestione delle scene manga ripetutamente proiettate; a tal punto sono introiettate, che i due non mancano di affrontarsi a dichiarati colpi di maglio perforante o alabarda spaziale, martellanti come quelle pubblicità – qui rese da voci fuori scena dal volume assordante (esattamente come capita in tv) -, che inneggiano a uno stile di vita votato al successo. Con guizzo veloce, la drammaturgia destrutturante di Fiammetta Carena passa in rassegna moltissime casistiche della vita reale, ma lo fa con una modularità maggiormente garante dell’analogia fra di esse, che realmente attenta alla specificità di ciascuna. Così è solo un volo d’uccello quello che ci porta a planare su temi quali il rapporto padri/figli, la figura genitoriale, il ruolo dei “maestri”, la disoccupazione, il disagio sociale, il conformismo nei rapporti interpersonali… fino a tematiche forti quali pregiudizio, discriminazione o eutanasia. Quasi solo eco sospese nel dilagante oceano della performatività delirante, forse che questo quotidiano esercizio del potere sia una cosa per soli uomini? Così parrebbe. Non a caso si nota una quasi totale mancanza di figure femminili: solo in un paio d’occasioni vengono citate, in assenza, una madre ed una ragazza, che immediatamente assurgono a figure “angelicate” dalla stessa tonalità affettiva della Sila. In fondo, cos’altro simboleggiano, l’una e le altre, se non la struggente nostalgia di un naufragar [che] m’è dolce in questo mare? In scena, Maurizio Sguotti e Tommaso Bianco, sotto la direzione recitata dell’arbitro/uomo alla consolle Alex Nesti, si affrontano in rounds situazionali dall’impatto fisico importante e variamente declinato in azioni dall’esplicita dinamica di sopraffazione, forse per giungere ad una conclusione opposta, nonostante tutto.

La rassegna “Nuove Storie” prosegue all’Elfo con “Bandierine al vento” di Evoè!Teatro dal 15 al 17 maggio 2018.