Speziani/Gabrielli e quel “Miracolo” che ancora ci manca

Con evidente ammicco al celeberrimo film di De Sica (“Miracolo a Milano”, ndr), “Nessun Miracolo a Milano” è la risposta, che l’ormai collaudato duo Renato Gabrielli/Massimiliano Speziani dà a questo tempo di lockdown.

Un progetto nato dall’evoluzione di una pratica

La pratica è quella intrapresa da Speziani, al rientro da quella che avrebbe dovuto essere la tournée internazionale de “La Tragedia del vendicatore” di Declan Donnellan (produzione Piccolo Teatro di Milano, ndr) di mantenere vivo il contatto con il pubblico.
Impossibile, per lui, concepire un’azione teatrale solo in streaming neppure durante il primo severissimo lockdown di marzo. Così lui, artista (e uomo) schivo e lontanissimo da qual si voglia protagonismo, assecondando forse qualche buon consiglio e certo cavalcando il costume dei “balconi” di quella recentissima stagione, si affaccia e comincia a “spacciare” racconti, arte e bellezza.

Ce lo raccontava anche in una chiacchierata riportata sulla nostra plateaLmente: “questa foto che vedi è l’androne del cortile del palazzo in cui vivo… Qui dal 14 marzo, più o meno, dopo che ho finito la tournée de “La tragedia del Vendicatore” a Londra, ogni giorno verso le diciotto, diciotto e trenta, ho iniziato. Non vado in streaming, non vado sui social, non vado su nessun… mezzo di promozione – sembra schernirsi. Ma qui, dal balcone o dalla finestra, rispettando la distanza di sicurezza e senza creare assembramenti (semplicemente i condomini si affacciano), per dieci minuti/un quarto d’ora […] leggo delle poesie, dei racconti, interpreto dei piccoli pezzi. E sembra che questo teatro condominiale fatto ancora di persone “vive” – trasale; si ferma: si rende conto del possibile infelice bisticcio di parole e se ne scusa – di “presenze”, comunque, “in carne ed ossa”, per me è di un grande aiuto e, credo, anche per loro.”
Tutto questo si è trasformato in un progetto di (ri)scrittura – ma anche in una serie di acquerelli nati dalla mano accorta e leggera dello stesso Speziani -, di cui i fortunati condomini sono stati i primi incuriositi “visionari”.

Lo spettacolo

“Nessun Miracolo a Milano” avrebbe dovuto debuttare – e restare in scena… – al Teatro della Cooperativa dal 23 ottobre al 1 novembre 2020. Poi il secondo lockdown teatrale, il 25 ottobre: ed è in quell’occasione che abbiamo scelto di vederlo.

Per chi conosce i lavori di Speziani/Gabrielli, la cifra è immediatamente evidente. Lo stesso entrar sul palco, scalzo e quasi in controtempo, di “Questi Amati Orrori”, il medesimo giocare con le sue scarpe e quello stesso ammiccare al pubblico (non a caso, qui, di pretesi bambini, quasi a rendere ancor più naïf e surreale e, al tempo stesso credibile, con quella caparbia verità, che solo i più piccoli sanno imprimere ai loro giochi), che fa, di molti loro spettacoli, un jouer a quell’en attendand Godot, che, in fondo, la vita è.

…e il senso del suo raccontare

Ogni favola è un gioco”, cantava Bennato: e pochi sanno giocare la prossemica teatrale con quella grazia, leggerezza, precisione, dissimulata fatica e incantevole, ipnotica perizia, con cui il mimo Speziani riesce, anche quando venga dotato di parola e guanti (e panciotto) gialli – quel giallo, chissà, che nell’antica Gracia, stigmatizzava il ”matto”, “colui che dice e non dice la verità…”.Ogni favola è un gioco”, si diceva, per poi chiosare: “non la puoi ritrovare in nessuna città/perch’è vera soltanto a metà”.
Ecco: ed è qui che la sua arte della fantasia incontra e sposa la penna di Gabrielli, al contrario sempre imbevuta di reale e affilata alla mola di un’ironia costantemente pronta a virar in satira.
 

featuredChissà, forse una boutade, alla base di quella riformulazione del titolo del film di De Sica – a Milano, del resto, in quei giorni, di miracoli se ne vedevano ben pochi… -; forse, invece la voglia di raccontare della sottilissima zona d’ombra, che separa l’arte dalla finzione – e, di conseguenza, dalla menzogna. Sta di fatto che il Totò, protagonista dello spettacolo, è un uomo di mezz’età, che attende, nel giorno della ricorrenza della sua scomparsa, l’improbabile ritorno del proprio “maestro/salvatore”. Intanto ce lo racconta con gli occhi pieni d’incanto di quand’era ancora solo poco più che un ragazzetto, salvato da un uomo bizzarro, probabilmente vissuto di espedienti, in una baraccopoli nella periferia meneghina.

Eppure quel racconto svapora…

Così, in filigrana alla trama del film, una giaculatoria d’immagini, boutade, stoccate, che sembrano affondare ben dentro all’ipocrisia e al politically correct di facciata, comune a ogni epoca. Non mancano le stilettate alle fake news – tema caro a Gabrielli, che, già nel 2018, aveva tenuto un laboratorio dal titolo L’amplificazione della paura tramite le fake news all’Accademia dei Filodrammatcici di Milano -, né al bizzarro ruolo dell’artista. Un po’ menzognero e un po’ cialtrone, qui il mago Alfredo – alias quel Godot, di cui si narra in assenza, aspettandolo… – è tratteggiato con pennellate dall’emozionalità struggente e onirica, indulgenti nel condonare gli escamotages costantemente messi in atto per sbarcare il lunario.

L’urgenza delle domande sul senso e ruolo dell’Artista

E quindi: “Chi è l’artista?” e vogliamo: “Cos’è?” Cosa ne legittima il differente modo di stare al mondo e perché mai una comunità, necessariamente fondata su altri ritmi e meccanismi certo differenti dai suoi, dovrebbe farsene carico? Come non sentire lo schiacciante peso di queste riflessioni, in una replica, che, ad avvenuto annuncio della nuova chiusura dei teatri (dpcm del 25/10/2020) era dichiaratamente l’ultima?

Estratto dalla scena finale del film di De Sica/Zavattini “Miracolo a Milano”

La risposta di De Sica/Zavattini alla furbescamente truffaldina logica del profitto di certe holding era tutta nel surreale, liberatorio volo sulle scope dell’ultimo quadro; quella di Speziani, invece, è ribadita nelle parole di commiato a fine replica, dopo gli applausi. Ha parlato della “necessità di questo lavoro, fatto anche con voi spettatori […] È essenziale”, ha detto, ribadendo che ne “abbiamo bisogno… a un altro livello… ed è importante che circoli e che questa idea sia contagiosa nel senso buono del termine, perché altrimenti non moriremo di covid, ma potremmo morire di qualcos’altro: di inedia.” Ha poi chiosato ricordando come sia stato dimostrato che i teatri sono fra i luoghi più sicuri, per poi fare focus sull’indotto che si fa nei piccoli teatri e da chi il teatro lo porta in luoghi come le scuole, gli ospedali e gli asili. “E va bene il primo lockdown… – sembrava conciliare -, ma poi il ripetersi di questa situazione potrebbe diventare pericoloso. Bisogna silenziosamente, ma fermamente dire: “Basta!”, ha chiuso.

Considerazioni conclusive

È certo comprensibile – e personalmente condivisibile – questo carattere d’urgenza: esistenziale e vocazionale, anzi tutto. Non a caso gli artisti – e i teatranti, in particolare, depositari di quell’arte tanto preziosa, quanto evanescente, che li ha fatti confidare, attraverso le parole di Shakespeare: “Siamo fatti della stessa sostanza dei sogni…” –, per secoli sono stati disposti ad accettare inaccettabili condizioni di precarietà pur di non rinunciarvici. Eppure non lo so quanto un simile appello possa trovare ascolto in un’epoca di sconcertante pandemia globale, a cui euristicamente si cerca di porre contenimento, un colpo al cerchio (l’epidemia) e un colpo alla botte (l’economia), pur nella consapevolezza che comunque i conti non torneranno.

Quel che conosco bene, invece, è che l’energizzante senso di privilegio, che può dare l’assistere alla performance di un attore capace di trasfigurarsi perfino nella statua greca di una Venere che prende vita: e tu la “vedi”… e resti lì, estasiato e senza fiato. Ecco, forse è questo il senso del miracolo teatrale – a Milano o dove per esso, poco conta. Poi, però, forse c’è da chiedersi quanto uno spettacolo, che ancora indulga su un‘auto riflessione sul senso e sulla vocazione artistica – pur preziosissima e per altro aspetto quasi “doverosa” in un’epoca simile – possa realmente interessare e richiamare un pubblico di non addetti ai lavori o afecionados e sempre più perso in un mondo così lontano una certa magia.

Così io penso che, a pandemia conclusa, la vera sfida sarà – per gli artisti, sì, ma anche per chi si occupa di politiche culturali e per tutti quei ruoli “comprimari”, che sono gli uffici stampa, promozione, i giornalisti… – ricominciare da dove, in fondo, ci si era un po’ arenati: intercettare il pubblico. Potrebbe suonare “facile”, ma è inevitabile non ripensare, specie qui a Milano, alla vitale e alfin vittoriosa sfida, in questo senso, degli allora giovanissimi Giorgio Strehler e Paolo Grassi e del loro andare a “stanare” il pubblico in quei… cluster (si direbbe oggi) di spettatori prospect, attuando azioni di facilitazione, senza vergogna nell’attivare benefit, che li invogliassero al consumo del prodotto culturale… Non di tratta necessariamente di sfornare prodotti preconfezionati sulle abitudini del pubblico. Di certo occorrerà trovare uno storytelling efficace, capace di avvicinarlo a quel Miracolo – a Milano o dove per esso – e in grado di farlo volare anche sulle spelacchiate scope dell’emozione e della fantasia, invece di lasciarlo sfrecciare su malsicuri monopattini a motore, improbabili replicanti di quei giochi infantili – forse allora snobbati e ora, incautamente, rincorsi.