Rosario Palazzolo e il gattopardesco “Ammazzatore” accucciato sotto un svolazzo immobile

Il bello delle storie è che ciascuno le racconta a modo proprio. C’è chi le sussurra e chi le grida, chi le restituisce con tocco poetico o nota emozionale e chi le rende taglienti come lame o caustiche come acido solforico – o, ancora, ironiche, divertenti, ridicole o surreali.

E poi c’è la maniera di Rosario Palazzolo. Inventa storie, razzia registri narrativi e li frulla tutti insieme come in un beverone energizzante e dai colori caleidoscopici. Poi ce lo scodella lì, fra il serio e il faceto, senza scordare mai, nella sua scrittura per strati, di svelare un ulteriore significato ad ogni giro di boa. Lo avevamo visto già nella trilogia “Santa Samantha vs”, di cui proprio al Teatro della Contraddizione aveva portato “Lo zompo” e “Mari/age” (completa il trittico “La veglia”), ma anche in “Letizia Forever”. E lo abbiamo visto di nuovo, nel weekend lungo dal 28 febbraio al 3 marzo 2019, in questo “L’Ammazzatore”, sempre al TdC.

Apparentemente è la storia di un sicario, che, quasi per caso, scivola fra i tentacoli della malavita, in cui rimane intrappolato suo malgrado. Di fatto, è il racconto, divertente e surreale, di una mente costretta a un pensiero laterale all’interno di un meccanismo invece asfittico e senza fantasia. È la rivincita di chi ragiona fuori dagli schemi e fuori da un coro, da cui cerca di saltar fuori sia pur nella più improbabile e rocambolesca delle maniere. Eppure riecheggia il gattopardiano cambiare tutto affinché nulla cambi – “Movìrisi dentro – dice -: fìssati su questa parola. Ma fermo, fuori!” – come estremo lido, in cui pascere la propria indole non rieducabile. Questo, in fondo, il retrogusto amaro, che ci si porta a casa.

Eppure non è la classica storia di mafia. È una festa – “strana, muta, ognuno a casa sua…”, dice, con smaccato accento siciliano, che profuma di terra, tradizione e superstizione e di quell’ignoranza, che a volte è autentica saggezza, sì, ma, altre, inestirpabile pregiudizio. Mentre celebra un compleanno – “un anno preciso, dice il calendario…” -, ricorda: “Quando sono morto io, si fece festa”. Quindi dove siamo? Forse solo nella testa di chi ricorda: “Ci ho messo questa virgola di tempo che non esiste, se non per te… con me”.

A parlare è lui, Ernesto Scossa, che la regia di Giuseppe Cutino sdoppia in due, portati in scena dallo stesso Palazzolo e da Salvatore Nocera (già strepitoso protagonista di “Letizia forever”).

Ed ecco che sì, non è una storia di mafia, questa, ma, come sempre in Palazzolo, solo il pretesto per affidare al medium teatrale riflessioni filosofiche, umane, esistenziali, esperienziali – condite e porte con quel pizzico di surreale, giocosa e spiazzante ironia, che ce ne fa arrivare tutto il divertissement ludico, prima di punzecchiarci appena, inoculandoci un tarlo di socratica reminiscenza. È la scuola Vetrano-Randisi che fa scuola e che gioca ad andare a bottega da Franco Scaldati per portarsi a casa, Lucignolo irriverente, una scrittura ancor più affilata e, a tratti, più prosaica, forse meno lirica, ma certo più contemporanea, ammiccante e pop. Anche Palazzolo mixa dialetto e saggezza popolare – coi suoi usi, costumi, miasmi e fantasmi – ad un’apparente naïvité. Se da una parte ciò gli consente di tratteggiare personaggi quasi stereotipati nella rotondità del cliché, dall’altra, per quel potente abbattitore di ogni resistenza che è la risata, ci fa scoprire noi stessi in quegli omuncoli. E poi rincara la dose, affidando a quelle labbra dialettali così surrealmente sgrammaticate e prepotentemente lontane dai nostri fini voli di pensiero, pensieri così spiazzanti, quando poi ci ricordiamo di averli letti già, in rimossi manuali di filosofia. Si mescolano così, le riflessioni su Soggetto-e-Oggetto e verità e su come questa più spesso sia un qualcosa d’intrusivo che ci si annida nella testa come in una stanza presa in affitto, piuttosto che non qualcosa di originario e autoctono. E, in questo viaggio surreale, in cui una divertente coreografia rima con l’improbabile colonna sonora pop di “Gelato al cioccolato”, non manca spazio per lo “zio” (padrino) o per lo spettro del nonno. È lui, ad esempio, che compare in sogno ricorrente, consegnando un monito tanto potente quanto assurdo ed esilarante; né meno lo è la riflessione sullo svolazzo fermo dei lenzuoli con cui si ricoprono le cose, i mobili… i cadaveri… e in fondo anche noi. Spesso coinvolti dalla regia, che non solo moltiplica e sdoppia il soggetto monologante in due entità perfettamente interscambiabili, ma le esplode in platea come nella beffarda curiosità di essere per una volta lui/loro, a provare a capire come ci si senta nelle nostre scarpe – “le scarpe sono delle fabbriche e non di chi se le mette ai piedi; e pure i pensieri sono di chi te li fa pensare…”, dice, quasi stralunato monito a chi si arroga a condizionare il pensiero altrui e spiare quel che accade in scena.

E quel che accade in scena è lo scoppiettante svolgimento di una vicenda che altro dice – la surreale storia di un ammazzatore per sfinimento, dopo essersi inutilmente cimentato con mille altri mestieri – e ad altro allude – già perché altro è ammazzatore, altro assassino: ti ritrovi con dentro “la cosa nera, se non ci stai attento […]succede anche ai dottori”, dice. Ma, soprattutto, in scena, succede che questo rimpallo di ruoli, maschere, sensazioni, voci, codici, pensieri e riflessioni è mirabilmente portato da due attori generosi e instancabili, questo sì, ma anche giustamente istrionici, performanti e capaci di farsi repentino strumento ora di questo, ora di quello, in una girandola instancabile e tagliente probabilmente molto più di quanto lo spesso sollecitato riso non consenta a tutta prima di capire.