L’umanissima surreale “Scortecata” di Emma Dante fra Basile, Menandro e Kierkegaard

C’era una volta un re, seduto sul sofà, che disse alla sua serva: ‘Raccontami una storia’. La serva incominciò: ‘C’era una volta un re, seduto su un sofà, che disse alla sua serva…’”. Chi non la ricorda, questa filastrocca? Chissà quante volte l’avremo ripetuta – a sfinimento…-, negli interminabili pomeriggi della nostra infanzia. Quel che ci affascinava, allora, forse era il potere magico della ripetizione. Per il solo fatto di sciorinarla, questa formula sembrava generare storie dentro alle storie, che, come cerchi concentrici sulla superficie sottile della nostra fantasia bambina, ci regalava il primo stupito senso della potenza creatrice delle parole. Poi, certo, a qualcuno sarà venuta voglia di cercare un sassolino, che gli corrispondesse al meglio – o addirittura di forgiarsene uno a propria immagine e somiglianza -, da far rimbalzare, ad arte, su quella superficie placida. Mi piace pensare che nascano così i racconti e quella loro meravigliosa messa in tridimensionalità che il teatro. Di certo nasce così, da questa ripetizione di una memoria popolare e condivisa, quel “Cunto de li cunti” di Giambattista Basile, da cui Emma Dante liberamente estrapola la sua “La Scortecata”, in scena al Piccolo Teatro di Milano, dal 2 al 14 aprile 2019.

La storia, infatti, non è esattamente quella: ed è proprio questo millimetrico, costante e quasi impercettibile slittamento a dare un senso nuovo e un sottilissimo dolore di contemporanea umanità alla vicenda. Restano immutate le triviali e divertentissime dinamiche fra le due sorelle/sorellastre – alla Cenerentola: non fu, del resto, Basile, autore anche di quel “La gatta Cenerentola”, che troviamo, essa pure, ne “Lo cunto de li cunti”? Eppure il racconto vira verso un onirico che non si sa se sconfini più nel fantastico e nel dentro alla testa, cifra di tanta scuola teatrale siciliana contemporanea – da Vetrano/Randisi, con le loro messe in scene delle drammaturgie di Franco Scaldati (in scena, con una personale a loro dedicata, al Teatro Elfo Puccini di Milano, dal 9 al 18 aprile), all’autarchico Rosario Palazzolo. È in questo solco, che si (ri)colloca Emma Dante, riappropriandosi di quella cifra e di quel linguaggio già de “Le sorelle Macaluso”, ad esempio.

Qui la denuncia svapora in un racconto intenzionalmente fiabesco, di quelli che iniziano con “Anticamente…” e che ti avviluppano come in un sogno, da cui non vorresti svegliarti mai più.

Così, in scena due strepitosi Salvatore D’Onofrio e Carmine Maringola – dalla prossemica superba e divertentissima, eppure capace di restituirci anche i tremori e timori di una vecchiaia così avanzata da scongiurare quasi la morte -, shakespearianamente interpretano sia le due sorelle centenarie, che il rozzo Re di Roccaforte, reso attraverso la sottile gorgera, usata a mo’ di corona. Ce la raccontano a modo loro, questa storia. E noi non sappiamo se sia una vicenda reale, pur nella finzione fantastica, o solo il trastullo di due vecchie, che non sanno più cosa inventarsi per occupare il tempo – come sembrerebbe, ad esempio, nel primo cambio scena, quando la maggiore borbotta contro la sorella, che la obbliga a sgombrare la stanza per la sua quotidiana messa in scena dell’incontro col Re. Ed è questo che lo rende interessante: non la mera ripetizione della favola (di Basile), ma una répétition nel senso teatrale di continua prova – e, chissà, fors’ anche di messa alla prova –, fino a sfociare in un nuovo orizzonte di senso. Sembra essere qualcosa di più prossimo alla gjentagelsen di Søren Kierkegaard. Non il rimpianto retroverso a quel che non è più, la la capacità di ri attualizzarlo in un oggi che guardi in modo costruttivo al domani. Questo, l’intento.

Così forse non è un caso che la prima scena sia abitata da due uomini in tuta nera – gli abiti comodi, normalmente richiesti per le prove a chiunque faccia teatro, di cui solo in seguito gradualmente si spoglieranno – a partire dal disvelamento del volto, abbassando il cappuccio delle felpe – per mostrare via via i succinti costumi dei personaggi, laidi e sgangherati, come queste fetide vecchie.

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Si muovono in una scenografia evocativa e accogliente fatta di cose piccole, ma dalla suggestione immediata. Sono le seggiulicchie, inseparabili compagni di vita delle anziane donne di un Meridione forse ormai fuori dal tempo, che a quelle affidavano le proprie stanche membra rinsecchite e rattrappite dagli anni e che quelle spesso usavano qual bastone per i loro ultimi stentati passi… È il lezioso modellino di Castello incantato, quasi focolare attorno al quale si stringono e si riscaldano le fantasie, chissà, delle due seppur triviali vecchiacce – e che spesso poi si offre qual palcoscenico di quelli che sembrano essere i loro rinvigoriti sogni da contadinella che portava la ricotta al mercato, per restare in tema.

Parla proprio di questo, lo slittamento a cui si accennava prima. Così, nella favola sulla rivalità fra sorelle – pur ben presente e splendidamente giocata, nei bisticci coloriti e scurrili, com’è di vecchie che abbiamo perso ormai ogni inibizione, o nei ricatti attorno ad una contemporaneissima borsetta dei danari, per ricreare la suggestione partenopea -, qui s’insinua e s’innesta un sottilissimo senso di pietà, compassione, solidarietà, ma anche l’amarissima allusione al passare del tempo e a quell’artificioso procrastinare la durata della vita a tal punto da invocare la morte quale liberazione. “Chi muore giovane è caro agli dei”, scriveva Menandro. E, nonostante i battibecchi che le hanno viste offendersi e contrapposti con le più colorite, scurrile e feroci delle formule di una lingua napoletana, che tanto riecheggia i personaggi bestemmiati e bestemmianti di Mimmo Borrelli, la sorella maggiore infine si piega sull’altra a sussurrarle tutta la sua pietà e dolcezza per una vita che, in fondo, non è che sia stata tanto più generosa con lei.

E, mentre nella favola di Basile, una trionfa e l’altra si perde, qui, in questo forse gioco per ingannare una morte che sembra averle dimenticate entrambe, è la minore a chiedere all’altra il più inammissibile dei gesti. Fin dove può arrivare la pietà?