NATALE IN CASA CUPIELLO CUM FIGURIS E UNO STRAORDINARIO “BURATTINAIO”

Fresco fresco di Premio ANCT (Associazione Nazionale Critici Teatro), in scena al Teatro Menotti di Milano per poche date soltanto, dal 2 al 5 novembre 2023 (ma poi in tournée per l’intero Stivale), “Natale in casa Cupiello” di Eduardo, nel curioso allestimento di e con Luca Saccoia rivive di una singolarità tanto inedita quanto coinvolgente.

SPETTACOLO PER ATTORE CUM FIGURIS

Già la scelta è coraggiosa e cortocircuitante: coraggiosa, per l’equivoco sovente sotteso al genere teatro di figura – ancora snobbato dal pubblico adulto, che spesso lo identifica col teatro per ragazzi tour court -; cortocircuitante, per l’ininterrotta reciprocità di rimando col presepe, attorno a cui si stringe la vicenda. Eduardo, infatti, la segue sotto traccia, fino ad esplicitarla nella tragicomica processione dei “Re Magi” per la consegna dei doni durante la Vigilia (esilarante epilogo del nucleo originario di quel “Natale in casa Cupiello”), oltre che nel celeberrimo tormentone: “Te piace, ‘o presepe?”, per tante volte capace di suscitare il riso, nello stizzito, ostentato e irriverente diniego del figlio, fino a virare in tutt’altro sapore nella chiosa. La chiave interpretativa, qui, invece, squaderna tutto ciò non solo in scenografie esplicite, dall’accurata linea laboratoriale – ora con immagini carillon di teatro d’ombre, ora con tratto naif e volutamente un poco retrò, ad alludere, forse, alle figure della Smorfia napoletana, ma ce ne offre anche una surreale versione ribaltata, dove chissà quale sia il vero pre-sepio – nell’accezione di “piccolo modo recintato da un siepe”…

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Così è, questo spettacolo per attore cum figuris ovvero l’arte di rievocare l’antica pratica delle marionette, proiettando sull’oggetto inanimato la vitalità, di cui è privo, e guadagnandone, in cambio, uno spazio di libertà espressiva e di parola, che raramente la nostra indulgenza di pubblico accorda alla persona in carne ed ossa. E ha buon gioco, Luca Saccoia, Geppetto dall’istrionismo divertito di un sagace Prospero, nel creare mondi dalle dimensioni abnormi; ha buon gioco nello sguazzare fra il micro e il macro, parodiando come e più del grande Eduardo, fino a stillare, nell’ultimo atto, tutta l’essenza della poesia e la struggente tenerezza, che, in fondo, questa scrittura racconta. Scandito negli originari tre atti, a cui giunse la gestazione di De Filippo (che lo definiva “parto trigemino con una gravidanza di quattro anni”), questo spettacolo è un inno al grande teatro di Eduardo e della tradizione partenopea, di cui restituisce umori e sonorità (straordinaria l’ampiezza espressiva e timbrica con cui Luca Saccoia dà voce a tutti i figuri), ma anche quella cura e attenzione, capace di precipitarci in una dimensione altra, senza nessun altro ausilio se non la nostra più spontanea e disarmata adesione a questa grande magia.

ATTO PRIMO: L’ORO DI NAPOLI

È proprio in questo primo atto – in effetti, fin dallo schiudersi del sipario -, che siamo accompagnati per mano in quella napolitanità, fatta anzitutto di voci e tradizioni (non “Tu scendi dalle stelle”, ma quell’antesignano partenopeo che è “Quanno nascette Ninno”) e poi gli affacci, che alludono a vicoli, i profumi e i rituali (‘o café, a zupp’e latte), i piccoli oggetti quotidiani (‘a colonnetta ovvero il comodino alto e stretto, immancabile nella mobilia del Meridione di quei tempi) e quei bisticci familiari, che, come avrà più volte modo di ripetere Lucariello davanti all’ospite, quasi a mo’ di scusa, ma non senza una vena d’ironia, non sono niente, perché poi nui ci vulimm’ bene.

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Come da trama eduardiana, il primo atto è preparatorio: i rapporti d’amore-odio in seno alla famiglia allargata (non solo Tommasino, sorta di bamboccione ante litteram ancora in casa coi genitori, ma anche Pasqualino, fratello di Lucariello e quindi zio di Tommasino, che, come usava ha una stanza in affitto a casa Cupiello), la crisi familiare di Ninuccia (la docile primogenita data in sposa al “buon partito”, ma che ora comincia a guardarsi attorno) e, nel mezzo, Lucariello, pater familias desautorato, la cui principale (pre)occupazione sembra essere quella di un degno allestimento del presepe. Eppure l’io narrante, in questo spettacolo cum figuris, è quello di Tommassino. Solo così capiamo quell’arguto e ininterrotto gigioneggiare, degno di un Pinocchio bambino e irriverente, che davvero tanto sa di quei quadri narrativi da teatrino dei burattini di strada.

ATTO SECONDO: IL NUCLEO ORIGINARIO

Era il 25 dicembre 1931, quando quest’allora “Atto unico” veniva portato in scena al Teatro Kursaal di Napoli: un ingaggio di soli nove giorni, trasformatosi poi in un proseguo di repliche fino a maggio per all’incredibile successo. Una scrittura brillante, in effetti: una sorta di tragi-commedia degli equivoci, che li lasciava solo intuire, la fatica e il coraggio necessari per andare avanti; così, i pur abbozzati sfoghi di Carmela (moglie e madre), ad esempio, passavano più per lazzo, che per squarci di verità di quel tutto tondo di colonna portante, che lei è, pur indovinabile nell’al fin devoto contegno dell’istrionico coniuge (e del cognato bisbetico e del bizzoso figlio) nei suoi confronti.

E, qui, la scena cambia: non più la centralità del letto di Lucariello; al centro, ora, è il tavolo della sala, attorno a cui sta per consumarsi la cena della Vigilia; tutt’attorno gli altri spazi di casa – la cucina e l’immancabile presepe -, illuminati, a tratti, da tagli di luce dalla trasversalità caravaggesca e capaci, anche loro soltanto, di alludere a quella materia drammatica, che aleggia dietro all’ostentata leggerezza di queste baruffe familiari. Ma quel che colpisce è l’ec-centricità del punto di vista di questo narratore onnisciente, deus ex machina. Come un bimbetto tarantolato, si arrampica sulle impalcature, eterno work in progress di un presepe, che sembra non debba finire mai. Domina tutto, da lì, fino a potersi permettere il lusso perfino di dare allontanarsi, dare le spalle, commentare con la prossemica e scimmiottare quel che stanno raccontando quegli stessi figuris, a cui non smette di dare voce e vita. Ed è lì che capiamo che è Tommasiello: un po’ bambino e un po’ bamboccio, un po’ Pinocchio e un po’ Lucignolo, ma, soprattutto, rigoroso e abilissimo Mangiafuoco – che, se può concedersi tutta la libertà del gioco della (dis)simulazione, è perché salde tiene le briglia di un lavoro accuratissimo e dalla performatività figlia di una lunga gavetta.

ATTO TERZO: STRUGGENTE DISTILLATO DI TENEREZZA

Ma è proprio nel terzo atto, che questo spettacolo arriva ad un vero e proprio inveramento. Sfrondatolo da tutte quelle gag da palcoscenico, in cui ancora cui indugiava la commedia di De Filippo, Saccoia distilla e fa precipitare tutta quella potenza emozionale (ed emozionante), soverchiata, fino a qui, dalla burla. Pinocchio si trasforma in bambino nel coro delle voci degli astanti (singolare, arditissimo, ma efficacissimo escamotage atto a mantenere il focus prepotentemente sul personaggio Tommasino-figlio) e tutta la struggente, generosa e spesso strabordante umanità del pur controverso napoletano, ci regala una pagina di teatro altissima come altissimo è il livello qualitativo, ma anche di pancia, cuore, energia, rigore, innovazione e fedeltà di questo spettacolo, evidente frutto di una sinergia d’intenti, che coinvolge, oltre a Luca Saccoia, l’intero staff di manovratori/vocalist, costumista, scenografo, regista, light designer e musicista.