Otello e la tragedia dell’eterofobia nel Circus delle passioni umane

Se c’è un evento che scandisce, oramai da oltre vent’anni, le estati teatrali milanesi, di certo questo è il festival “Da Vicino Nessuno è Normale”. Inaugurato nel 1997 – epoca in cui le stagioni teatrali si concludevano a maggio eppure con la voglia di proporre un teatro di qualità, in barba ad ogni strategia dichiaratamente commerciale -, il progetto nasce itinerante nel parco-cittadella dell’ex ospedale psichiatrico Paolo Pini. Dal 2008, ha acquisito dimora stabile al TeatroLaCucina, refettorio dell’ex struttura nosocomiale, poi riconvertito a luogo d’arte; un intervento di bonifica nel rispetto di un’idea conservativa, che ha scelto di mantenere le peculiarità del posto: così le macchie d’umidità, ad esempio, sono state fissate sui muri, conferendo un’evocatività suggestiva, che già predispone ad un certo tipo di fruizione. Ed è proprio in questo spazio – comunque di condivisione, benché di un altro tipo di cibo –, che, dall’8 al 10 giugno 2018, Teatro la Ribalta-Kunst der Vielfalt porta in scena il suo “Otello Circus”, in collaborazione con Orchestra Allegro Moderato, a coronamento di tre settimane di residenza della compagnia bolzanina nella struttura al limitare della periferia nord di Milano.

Non c’è che dire: tutto ha un peso; e questo è vero soprattutto per chi, come Antonio Viganò, sia abituato a lavorare in modo schietto e onesto, esigendo il massimo da sé come dagli altri; solo così si può capire il suo intervento professionalizzante nei confronti dei ragazzi della Compagnia Accademia Arte Diversità. Inutile negarlo: la prima cosa che salta all’occhio, nel vedere gli attori in scena, è che sono portatori di disabilità; eppure quel che capita immediatamente dopo è quell’azione di mirroring per cui, le loro, diventano solo alcune delle declinazioni possibili di quelle fragilità, che convivono in ciascuno di noi: e questo fa subito teatro, nel senso più alto, etico e poetico del termine. Ma come ci si arriva? La scelta del cosa non è di secondaria importanza: e qui ha buon gioco, Viganò, nell’individuare nella tragedia shakespeariana su una diversità socialmente apparentemente accettata, materiale fertile per una lettura stratificata, capace di declinare lo spinoso tema in livelli di lettura quanto mai veri e spiazzanti. Perché, in fondo, “Otello” di questo ci parla: sì, va bene, della gelosia e del femminicidio; ma, a ben pensarci, questi non sono che corollari e tragiche conseguenze del tema principale. Fin dalle prime battute il Moro – non a caso identificato così – ci viene presentato come il cavallo berbero e il caprone nero e lo stesso Iago insinua nelle orecchie di Roderigo che presto la bella Desdemona si stancherà e tornerà a volere un uomo più bianco. Se a questo aggiungiamo il risentimento dell’alfiere per la mancata nomina, eccole poste, le premesse per la tragedia dell’eterofobia che muove chi, in fondo, non sappia farci i conti e capire che, normale, spesso significa solo normato ovvero conciliato a una norma: e non è detto che norme differenti non possano aprire a nuovi spazi di convivenza e normalità.

E però Viganò non è un teorico, né un filosofo; è stato un danzatore e poi un regista e lo strumento attraverso cui si esprime sono i corpi: ecco perché sceglie queste fisicità offese, che già di per loro parlano delle cicatrici della vulnerabiltà. Non può non farci corto circuito quel: “Lei mi ama per le mie ferite”, pronunciato da un Otello di colore – come da copione, ma col viso dipinto di bianco, come il clown triste, invertendo il canone shakespeariano dell’attore caucasico ma col viso impiastricciato di nero… – e con evidenti difficoltà di dizione, ancora nella fase iniziale del deliquio amoroso, in cui la passione fra i due ci viene raccontata accendersi per ragioni intime e delicatissime come le pene subite e la pietà. Ma per portarci fino a qui, deve prima agganciarci; e Viganò lo fa ricorrendo alla potente macchina del circo – retaggio felliniano – capace di offrirsi ad entrambi i livelli di lettura: uno divertente, scanzonato e giocoso, formidabile nell’abbattere le difese del pregiudizio e creare subito empatia – bravissimi, i ragazzi, nell’interpretare i differenti ruoli circensi con abilità e nonchalance invidiabili, che, mentre arrivano con una leggerezza tutta godibile, possiamo solo immaginare quanta fatica, esercizio e dedizione sia costata, se solo immaginiamo di essere noi nei loro panni… -; l’altro, il versante più serio, drammatico e significativo, è quello nei cui abissi possiamo sprofondare solo in quanto portati per mano da chi abbia saputo guadagnarsi prima la nostra fiducia. Così, in questa trasposizione circense, sbalorditiva per cura e coerenza segnica, ci viene raccontata la storia di un Otello/Prometeo (con)dannato, per l’uxoricidio commesso, a ripercorrere senza fine le fasi del suo gesto scellerato; nessuna pietà, per lui: né da parte di questa condanna senza redenzione, né, tanto meno, da parte di quella donna-fantasma, a cui invano chiede, se non il perdono, quanto meno un gesto di distensione. In filigrana a questa cornice di senso, la vicenda scritta dal Bardo è portata mirabilmente in scena da attori, la cui professionalità traspare nel mostrarci le fatiche e le sofferenze dei personaggi, ma senza mai lasciar trasparire o adagiarsi su quelle difficoltà, nonostante le quali generosamente ci offrono una performatività fuori dal comune. Sarebbe lunghissimo elencare le infinite occasioni, in cui questo si declina: dai sorprendenti numeri di giocolerie alle divertenti gag di Jason De Majo (anche un Cassio di gomma per quanto instancabilmente salta e piroetta) e Micheal Untertrifaller (un tenerissimo Roderigo, certo più simpatico e rubacuori dell’originale), dal finto funambolismo della leggera Desdemona (Mirenia Lonardi, per la cui incolumità davvero ci troviamo a temere, nonostante la fune sia solo una linea tracciata sulla pista del circo), al riluttante Otello (un Rodrigo Scaggiante imprigionato nella sua fisicità, che fin da subito ci restituisce l’intero peso dell’irreversibilità della sentenza), dal diabolico Iago (Matteo Celiento, gran mattatore al punto da trasformarsi in sadico collodiano domatore degli altri personaggi ridotti a somari) alla maschera di dolore della diafana Maria Magdolna Johannes (un po’ Emilia e un po’ donna-fantasma, emblema del femminile stigma contro la violenza), fino ai due ruoli inventati di Daniele Bonino (narratore/capocomico, ora testimone discreto, ora misura e regola della brigata) e Rocco Ventura (inserviente e rumorista) dall’aplomb impeccabile. Accanto a loro, l’Orchestra Allegro Moderato, formata da cantanti normo dotati e musicisti con disabilità, a sottolineare, nelle liriche dell’ “Otello” di Verdi, il pathos della tragedia: segno forte, pure questo, di una sinergia di inclusione sociale, capace di andare al di là della mera attività occupazionale.

Dopo tre settimane di #residenze a Ostello Olinda, #OtelloCircus di Teatro la Ribalta – Kunst der Vielfalt inaugura Da vicino nessuno è normale 2018. Quando gli #applausi non bastano… #grazie #teatro!

Pubblicato da Francesca Romana Lino su venerdì 8 giugno 2018

Un progetto ambizioso, questo “Otello Circus”: portare in scena il circo delle passioni umane attraverso quelle disabilità dichiarate, che, se accolte, non possono che innescare il detonatore dell’umana fragilità che ci rende tutti uguali; ma, soprattutto, uno spettacolo da non perdere e a cui concedersi di abbandonarsi.