Assassine della banalità

“Assassine”: andato in scena al Libero dal 3 all’8 giugno: una storia nella storia, nella storia. – no: non è uno scioglilingua. Un gioco di scatole cinesi, piuttosto; del resto: così è la vita.

E, così, ce la racconta il giovane drammaturgo Tobia Rossi.
assassine

Come punto di vista ne sceglie uno sanguigno e surrealisticamente ludico – come il temperamento dei suoi non ancora 30 anni. E poi sembra ricordarsi che ciò di cui si riesce a parlar meglio sono le cose che si conoscono di più: ed ecco che quel teatro, che lui non solo fa – in prima persona -, ma che vive – dall’interno e con tutte le sue bizzarre idiosincrasie -, non può che volgerlo in meta-teatro, cavalcando un’onda sempre più spesso in auge nelle sale milanesi.

Eccoli, i tre piani della narrazione: la trama teatrale – gli incubi di una mancata assassina -, quella meta-teatrale – le dinamiche, fra il serio ed il faceto, all’interno di una compagnia, qui, di sole (prime)donne/regine, in qualche misura… – e la morale della favola, che c’insegna che spesso il diavolo non è così brutto come lo si dipinge e, per contro, è proprio laddove meno ce lo si aspetti, che s’annida: fosse semplicemente in quel sottile e subdolo tramare, qui tipicamente femmineo e stregonesco.

La partitura, poi, si scandisce nell’ andamento binario di teatro e metateatro, cullandoci in un’alternanza, che, se poco concede, nel ritmo, a sorprese e variazioni, ce ne regala in colpi di scena, boutades, graffiante ironia e disarmante constatazione di questo così è – se vi pare…
L’oggetto del contendere è la trama, dicevamo: ovvero la notte d’incubi di un Angelo della Morte/Chiara Anicito tormentata dai fantasmi di celeberrime assassine, “viste in uno special su History Channel”, c’informa. E, così, mentre lei si dibatte nel suo letto scarlatto, i quattro spettri di assassine ad una ad una incombono su di lei. Né se ne lascia sfuggire la suggestione, il regista Manuel Renga, facendone propria l’etimologia: ‘incubo’ da ‘in-combere’ ossia ‘giacere su’ come l’immagine scenica della Saponificatrice, soprattutto, spesso rende, nel suo protendersi, chiamandola ‘Topolino’ ed invitandola a gustare uno dei suoi truculenti dolcetti…

ass_frigo

A questa sorta di cappello fanno seguito i cinque cammei – La Contessa Sanguinaria Erzsebet Bathory/Monica Faggiani, la Saponificatrice di Correggio Leonarda Cianciulli/Silvia Soncini, la Vedova Nera Belle Gunnes/Elena Ferrari, la Cagna di Buchenvald Ilse Koch/Paola Giacometti e l’Angelo della Morte S.C./Chiara Anicito -, alternati per lo più al gioco metateatrale delle attrici che mettono in scena lo spettacolo, ragionando, nei tempi morti, su che fine abbia fatto il regista e rivelando quei retroscena/clichet, che un po’ tutti si aspettano – l’attrice protagonista/amante del regista, l’assegnataria della parte più importante/colei che finanzia il progetto, l’ ‘alternativa’/figlia di papà… Cinque monologhi, che costituiscono altrettanti momenti ‘drammatici’. Non sono storie facili, quelle che hanno condotto queste ‘sordide Vestali del Maligno’, come si definiscono – o, ancora, con efficacia stravolgente, ‘Negazioni dell’utero materno che genera’ -, a cotanto grado e modo di efferatezza; e, però, in accordo al genere in cui s’incorniciano – la commedia, per quanto black –, la scelta resta sempre quella di mantenersi ad un livello di leggerezza. Lo dice bene, il personaggio attrice, che impersona la Cagna di Buchenvald: di aver studiato, di essersi preparata divorando documentari ed informazioni… sì, ma poi… “Non stiamo andando in profondità. Non è un lavoro che ti porta a guardarti dentro…”, lamenta la Saponificatrice: “Il lavoro dell’attore è scoprire le proprie botole nere”. Trovo che questo sia un passaggio strategicamente geniale: perché, prevenendole, mette al riparo da eventuali critiche di chi si fosse accostato allo spettacolo con delle precise aspettative in un senso o nell’altro. Sempre da ascriversi all’efficacia della drammaturgia è la capacità d’insistere su come in fondo l’assassinio – metafora della cattiveria e quindi del male, nelle sue possibili declinazioni – sia una “vertigine, un brivido, un talento, un istinto, un’arte, che ha a che fare con la bellezza”, come a dire: una lusinga da cui nessuno è invulnerabile. E lo raccontano bene, sia i quattro spettri – ciascuna storia, in fondo, muove da una normalità apparente per evolvere solo a posteriori verso quella ferocia, che quasi gli eventi giustificano -, sia la stessa S.C.: un’infanzia felice e poi di una madre che, sentendosi trascurata dal marito commesso viaggiatore, involve in uno stato depressivo, le cui ricadute in termini di ‘mancanza di conferme’, sulla figlia, sarebbero state sufficienti a generare cotanto orrore: “Solo per non essere invisibile…”. Felice è anche l’idea del contrappasso: loro, terribili assassine, ora in qualche modo chiamate a scontare, impedendo che la protagonista si perda. Ma, forse, è già troppo tardi; forse solo perché il male ed una certa qual dose di autocompiacimento, in tal senso, non escludono nessuno, come il caustico epilogo rivela. Efficace la regia, in alcune trovate – gli ‘incubi’, alternativamente presenze nella loro fisicità inquietante o poi ‘spettri’, dietro al velo nero… l’attacco dei monologhi al lume di un occhio di bue dai colori intensi, a rovesciare i momenti più corali dalle battute snelle e cinematografiche… – anche se talvolta eccessivamente pedagogica e ridondante nelle proiezioni ‘di commento’ – con funzione puramente esornativa… – di quanto veniva narrato. Convincenti, le attrici, nelle dinamiche di gruppo. Anche la Faggiani, la sola potenzialmente svantaggiata a causa di un personaggio che si muove in un linguaggio/registro non contemporaneo – a differenza delle altre -, di fatto dà una grande prova di attorialità, nel suo porsi da contrappunto.

Ieri l’ultima replica – doppia… – e si parla già di una ripresa, di questo spettacolo, che ha evidentemente saputo divertire ed incuriosire il pubblico.

Lascia un commento