UnterWasser: delicatissimi sguardi fra metropoli e sogno

La bellezza del teatro, specie di quello contemporaneo, è la molteplicità delle sue forme espressive. Tramontata l’epoca del teatro da camera o del teatro borghese, ad esempio, di quello civile o di narrazione, più spesso capita, oggi, che teatro sia performance.

E, anche qui, c’è più di un modo per intenderla.

Se vero è, infatti, che, come le parole, anche le categorie altro non sono che una scorciatoia del pensiero, i filosofi antichi insegnavano che il pensiero pensa l’essere. Lo shakespeariano Romeo, però, puntualizzava: “Ci sono più cose in cielo e in terra, Mercuzio, di quante non ne sogni la tua filosofia”, come a dire che la realtà spesso eccede i limiti della pensabilità

E così capita che l’irrefrenabile macchina della fantasia teatrale sogni labirinti ipnotici e dalla delicatezza rara, come accade in “Maze” (in inglese labirinto) di UnterWasser.

Finalista a In-box 2019 e per questo in replica il 1° dicembre al PimOff (fra i partner del circuito), questa live performance propone la visione onirica di un’esistenza, giocando, in modo impeccabile, con un’innovativa forma di teatro d’ombra a proiezione d’immagini. In soggettiva e attraverso gli occhi della sua protagonista – di più: addirittura attraverso lo sbatter di palpebre, nelle scene del suo vissuto infantile –, ci mostra il fluire della vita nella liquidità labirintica di una città. Da prima ancora della nascita si spinge a… chissà, forse verso una personale visione della vita dopo la vita. Quel che sorprende è la minuzia di certi dettagli o la straordinaria efficacia prospettica di quando si guarda il mondo dalle più decentrate angolazioni come capita nella realtà.

C’è molto di cinematografico, in tutto ciò.

E il solo modo per renderlo, teatralmente, non poteva che passare attraverso quella contaminazione, che segna tanta parte dell’espressione artistica contemporanea. Così Valeria Bianchi, Aurora Buzzetti e Giulia De Canio – le tre anime di UnterWasser – scelgono di annullarsi, quasi, per mettersi al servizio del loro progetto. Le vediamo in scena, sì, ma il senso del loro esserci è farsi sguardo – e, anche qui, in più di un’accezione.

Si fanno sguardo, perché è solo attraverso la loro manipolazione che l’istallazione mobile prende vita.

Sul palco, una moltitudine di manufatti e caroselli dalla plurievocativa suggestione artistica: dal disegno a linea continua di Steinberg, alla morbidezza del tratto di Modigliani, dalla permeabilità e leggerezza delle architetture in rete metallica di Tresoldi alla produzione di ritratti in fil di ferro di Calder. Quello che le tre giovani, ma dalla solida formazione accademica e universitaria, fanno è animare tutto ciò con un sistema di luci, che, giocando sul movimento impresso, crea un effetto pellicola cinematografica intenzionalmente naïf. Lavoriamo per condividere l’esperienza dell’incantamento, per noi irrinunciabile, attraverso la ricerca di un’estetica raffinata, frutto di un accurato studio sui materiali e sulle tecniche, dichiarano, a proposito del loro lavoro. Ed è proprio l’incantamento, l’effetto sortito sul pubblico. La luce, il movimento e la loro sapiente manipolazione delle minimalistiche sagome in fil di ferro riescono a restituirci un inspiegabile effetto realtà grazie anche all’ambientazione sonora spesso a impronta realistica; solo di rado, si smaterializza in tappeti acustici minimalisti e sospesi.

Si fanno sguardo, poi, perché, scegliendo di animare a vista le loro macchine sceniche, offrono al pubblico l’occasione di spiarne il processo.

Sembrano dirci che ciò che conta non è il prodotto finito. A differenza che in una rasserenante esposizione museale, non è la perfezione del concluso, del pacificato, quel che interessa mostrarci. Forse invece più interessante è la fragilità e l’imprevedibilità di tutto ciò che è in fieri, come, in ogni momento, lo è ciascuno di noi, nella sua datità e precarietà esistenziale. Così, se anche non mancano stacchi narrativi dovuti ai tempi tecnici per passare da una macchina scenica all’altra, questo non fa scandalo. Ci dicono di loro, che si muovono in punta di piedi – quasi vestali nel cerchio sacro -, ora convergendo su una stessa macchina scenica, ora facendo convergere l’effetto di più macchine in immagini dall’evocatività sovrapposta e amplificata.

Pur nella delicata liricità di tutto il lavoro, le scene forse più suggestive sono quelle legate all’acqua.

Unterwasser, che in tedesco significa appunto sott’acqua, sembrano muoversi perfettamente a loro agio in quell’elemento a proposito del quale scrivono: “Sott’ acqua è un bacino di ricerca teatrale dove si indagano le potenzialità poetiche, evocative e comunicative del teatro di figura. […] Sott’ acqua è anche oscuro, profondo, denso. Profondi sono i temi che ci domandano di essere scandagliati e portati alla luce. Sott’ acqua la voce non ha lingua, le parole diventano suono e i significati si colgono con gli occhi. Ricerchiamo un teatro visuale, universale, silente” Così, seguendo ancora una volta le loro parole, non resta che infrangere lo specchio della superficie e immergersi.