Uno zoo di vetro formato carillon

Se c’è una cosa che di certo non si può negare a Leonardo Lidi, è di avere le idee chiare.

Suoi, infatti, sono la regia e l’adattamento de “Lo zoo di vetro” di Tennessee Williams, in scena al Teatro Carcano di Milano dal 7 al 17 novembre 2019. Il giovane regista sceglie di rappresentarlo in senso anti naturalista, ma piuttosto onirico e, a tratti, surreale, giocando a esasperare segni e registri. Premunendosi di fornirgli, anzi tutto, chiavi di lettura versione omogeneizzato, quel che di fatto fa è cullare il pubblico, facendolo sentire sereno rispetto alla fantomatica ansia di non capire. Così, dopo averlo spiazzato con una scenografia da “Casa di bambola” versione rosa shocking e con personaggi dagli abiti clowneschi, sì, ma nella versione più pettinata e letteraria – Pierrot e Colombina -, che non circense – nonostante calzino le sproporzionate scarpe e i nasi rossi dei pagliacci -, lo cattura con luci ben studiate e di sicuro effetto e un leit motif musicale color nostalgia quale “Una carezza della sera” dei New Trolls. Dopo di ché, monta le scene, ingabbiandole in una più che coerente macchina dall’ingranaggio carillon.

Poco importa, poi, che la trama sia quella di un dramma (familiare). “Il dramma è sentimentale e non realistico”, ci avvisa, del resto, fin da subito, Tom, come da copione narratore onnisciente fuori dal dramma, oltre che personaggio coinvolto in prima persona negli eventi narrati. Sempre lui poi sciorina un ripetuto: “C’è molto trucco e molto inganno”, a mo’ di mantra – quasi a fissarlo nel subconscio degli spettatori, a ché lo utilizzino, di lì a breve, quale costante misura a compensare il divario fra quel che forse sapevano già, di quella storia, e quest’altra, che, invece, si dipana sotto i loro occhi.

Ma si tratta davvero di due storie poi tanto diverse?

La trama, ovviamente, è la stessa, perché non siamo in un teatro di ricerca e il pubblico vuol essere rassicurato dalla visione di un, a suo modo, classico. Ed eccole, le tematiche del dramma: l’asfittica ipocrisia di una famiglia americana piccolo borghese degli anni ’30, fatta di frustrazioni sopite e di negate ambizioni, in cui l’ego, l’illusione e la delusione la fanno da padroni. Ma identica, in fondo, è anche la temperie: “Sì, ho le tasche col doppiofondo e assi nella manica… ma non sono un prestigiatore. Piuttosto, sono il contrario: lui vi vende illusioni, che hanno l’aspetto di cose reali, io vi dono verità dietro la piacevole maschera dell’illusione” è citazione diretta del testo di Tennessee Williams. Quindi? Qual è l’idea innovativa e stravolgente del poco più che trentenne regista, visto solo poco più di un anno fa, nel latelliano cast di “Santa Estasi”?

In fondo, solo quello del portare alle estreme conseguenze. Così, ad esempio, la madre (Mariangela Granelli) è a tal punto madre, da essere rappresentata in scena come una donna in avanzato stato di gravidanza – quasi che fosse in quelle rotondità pregne l’essenza della maternità -, nonostante che abbia già, e da mo, messo al mondo i suoi ventenni virgulti. Tom e la sorella Laura (Tindaro Granata e Anahi Traversi) sono i due fratelli costretti, per compiacerla, nelle maschere dei clown, pur tristi, Pierot e Colombina, che ne deformano i tratti pur senza comunque riuscire ad adeguarli alle ambizioni materne. E il “pretendente” Jim (Mario Pirrello) – unico elemento di verità, almeno all’inizio, in quella burla familiare – è talmente lontano dalle sovrastrutturali e distoniche dinamiche dei Wingfield da non aver altro costume che mutandoni e maglia della salute – di quelli lunghi e di lana, com’era in uso ai tempi.

Insomma tutto molto stereotipato, detto e telefonato, come si dice, al punto che addirittura squilla il telefono a muro della casa di bambola; è, questo, l’escamotage per consentire a Tom di continuare a sciorinare quelle didascalie, che proprio il maestro di Lidi, Latella, ha tanto spesso messo in bocca ai suoi personaggi.

Ma se il disegno è ben chiaro, non altrettanto sicura pare la mano del metteur en scène.

Non sa davvero osare, al di là della rottura estetica ed estetizzante, o sporcarsi le mani, cavalcando davvero la cifra del grottesco o dell’onirico. Semplicemente, si limita a gonfiare gli isterismi materni o le amarezze, per aspetti diversi, dei vari personaggi, la cui direzione mostra forse un polso ancora acerbo nel contenere e disciplinare le esuberanze e precipuità dei singoli attori.

Peccato.

Una produzione importante, che vede coinvolti partner prestigiosi quali LuganoInScena/LAC Lugano Arte e Cultura, in coproduzione col Centro d’Arte Contemporanea Teatro Carcano, TPE – Teatro Piemonte Europa e in collaborazione col Centro Teatrale Santacristina. Eppure, a coronamento di tutto questo dispiegamento di forze, resta un po’ di amaro in bocca, per l’esito tutto sommato mainstream.

Di sicuro il virtuoso desiderio di parlare direttamente al pubblico, mostrandogli il lato più pop di qualcosa che potrebbe rischiare di essere respingente per la sua ieraticità; e, però, per altro verso anche l’occasione mancata di un prodotto così intento a curare il packaging, da perdere il respiro e la catarsi, che si possono sperimentare solo lasciandosi ammaliare dalla vertigine della profondità.