Un’ ilare giungla di puntiglio brechtiano

E’ sempre una sfida portare in scena un autore duro e rigoroso come Brecht: e che tratta tematiche altrettanto scomode, scandagliandole senza sconti di pena; e, così, uno dei modi possibili, forse, è proprio quello adottato dalla regista Marina Spreafico, che, in questo “Nella giungla delle città”, sceglie di alleggerire, spingendo sul pedale dell’ironico e del grottesco a stemperare quell’inevitabile claustrofobia, che le sempre nodali questioni trattate dal drammaturgo ingenerano.

http://www.teatroarsenale.it/in-scena/il-mio-nome-e-bohumil/
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Questa volta il nodo gordiano, attorno a cui si agita l’intreccio, è una sorta di braccio di ferro – metafisico, quanto apparentemente ‘sine ratio’ – fra due uomini: il ricco e non più giovane mercante malese Shlink ed il commesso di un ‘temporary bookshop’ – si direbbe oggi -, che dalla sua ha certo la forza di una vita ancora tutta da farsi, pur nell’iniziale émpasse di essersi appena trasferito in città – e con tanto di famiglia a carico – con le immaginabili difficoltà economiche, che questo comporta. Ed è proprio lì che il malese vuol andare a colpire: sul (presunto) stato di bisogno – e di ‘ricattabilità’, quindi – del ragazzo, a cui offre somme sempre più alte per il capriccio di comperarne non tanto i libri – regolarmente in vendita nell’emporio e verso i cui contenuti Shlink ostenta un’assoluta indifferenza -, quanto la sua personale opinione, rispetto a cui il fiero Garga, al contrario, mostra un irriducibile spirito di non sottomettibilità. E’ lì che nasce il ‘combattimento’, una sorta di duello panico, che conflagra, coinvolgendo tutto e tutti: la fidanzata del giovane – per prima, indotta a fare la vita nella locanda cinese di uno dei tanti ‘sottomessi’ al potente Shlink – e la di lui sorella – presa a servizio dallo stesso magnate e poi, lentamente, condotta sulla medesima strada, nonostante la domanda di matrimonio… -, i genitori di lui ed egli stesso, soggiogato dalla cessione dell’intera attività economica del malese, ma mai veramente (av)vinto, come il seguito dei fatti avrebbe dimostrato. Perché il punto non è, tanto, vincere la battaglia – e cioé comperare o meno le opinioni o la vita del giovane -, quanto far durare la guerra: in un ostentato gioco di non belligeranza e cortesia. Lo capisce bene, questo, George Garga: lo ammette, ad esempio, quando, giacendo in preda all’oppio nel bordello cinese, con parole che lo stesso Brecht ruba a Rimbaud, lo chiama “mon époux infernal” – a sottolinearne la natura malata ed ambivalente di un rapporto che sta declinando su pericolosi declivi – o, ancora, quando, alla sorella Marie, anch’essa perdutamente innamorata del cinese – nonostante tutto -, confessa: “Amore ed odio sono le più avvilenti delle passioni…”. E, attorno a tutto ciò, la Chicago d’inizio “900: città cosmopolita e dalle belle speranze – nell’immaginario dell’epoca -, ma di cui il drammaturgo tedesco mette in luce le brutture, le miserie e le insidiose lusinghe di una vita associata che tanto sa dell’ ‘homo homini lupus’; anzi, peggio: forse – ancor più radicalmente – di quell’ inferno sartriano, che è non tanto per una necessità di sopravvivenza – come nella legge della giungla -, quanto lo scellerato trastullo di chi, avendo tutto, cerchi di salvarsi da una noia ‘mortale’ e kierkegaardiana; e poi ne fa una questione di principio e di sopravvivenza: ecco perché lo scontro diventa epico e all’ultimo sangue. E Chicago trema. Certo: il riferimento realistico è ai terremoti che spesso scuotono quelle zolle; ma come non vederne la metafora di un sistema minato fin dalle fondamenta? Ed è proprio qui, ad esempio, che giustamente si stempera: proponendo una messa in scena che alleggerisce, divertendo – dal tremolio del cappello da cerimonia della sig.ra Garga, durante il secondo terremoto, al tintinnio delle stoviglie, durante il primo -: risultato ottenuto spesso grazie ad una marcata tipicizzazione – Paui Galli e Mattia Maffezzoli, rispettivamente il tenutario del bordello cinese ed il tirapiedi di Shlink, Fabrizio Rocchi/Pat Manky, ad incarnare il prototipo del sogno americano o la stessa brava Vanessa Korn, oramai però forse troppo spesso sacrificata in ruoli di tal genere… – o attraverso la destabilizzante introduzione di figure apparentemente non-sense quali i signori Garga – Marino Campanaro, nei panni di un padre avido e facile al compromesso, se ben remunerato, ed una splendida Claudia Lowrence, genitrice stralunata, ma non quanto vorrebbe dare a mostrare, capace d’intrattenere con pezzi d’invidiabile energia e di spiazzante comicità -. Agli altri tre attori vien assegnato un contegno più tradizionale, che ben sa calzare Mario Ficarazzo/Shlink, ma – soprattutto – Lorena Nocera/Marie Garga e il convincente Giovanni Di Piano, il Garga protagonista. Reso leggero e funzionale anche dalle sempre rinnovate scenografie di Valentina Menon e dagli instancabili movimenti scenici, “La giungla delle città” è in scena ancora nel pomeriggio all’Arsenale.

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