“Terra Matta” e quell’ancestrale bisogno di storie

Potrebbe sembrare un gesto anacronistico e reazionario, raccontare storie in questo mondo globale, performante e accellerato, dove perfino il tempo pare che vada di fretta. Potrebbe sembrare un gesto scellerato, in questa quotidianità, dov’è, al massimo, lo storytelling a rosicar attenzione delle moltissime news, più o meno fuck. Oppure, potrebbe invece essere un gesto rivoluzionario: la riscoperta di un qualcosa di tanto ancestrale, quanto necessario. Come mangiare, bere, dormire, accarezzare sogni e nutrire desideri, anch’esso è in grado di riconnetterci con la nostra parte più originaria e autentica, vitale e inalienabile.

Ogni volta che si racconta una storia, rivive un’antica esperienza e trova spazio dentro di noi. Torniamo nelle grotte delle origini, quando qualcuno cominciò a danzare una storia davanti al fuoco, dando così all’effimero esistere della specie umana il senso della durata in grado di sfidare il tempo del puro vivere animale”. Le parole sono quelle di Marco Baliani, non a caso inventore di quel modo di fare teatro, che chiamiamo di narrazione.

Ed è esattamente questa, la sensazione provata ascoltando – meglio: assistendo e partecipando a – “Terra matta” di e con Stefano Panzeri. a partire dai diari del cantoniere semi analfabeta Vincenzo Rabito. Questo rocambolesco monologo ha lo stesso sapore dei racconti dei vecchi attorno al fuoco. Complice una luce calda, a illuminare, dal basso, l’esile figura dell’attore, lo straordinario Panzeri giganteggia. Con una mimica straordinaria e disarmante (per la stupefacente aderenza a un personaggio con cui finisce col confondersi, pur senza perderne mai le redini), guizza nelle mille ombre delle cose, persone e sensazioni, facendo del suo corpo partitura e sottotitolo per quella lingua non sempre di così immediatamente comprensione. In questo primo monologo – i diari di Rabito sono scanditi in quattro parti – racconta la Grande Guerra.
I suoi, sono gli occhi sempre umidi di meraviglia, commozione e pianto di un
ragazzo del ’99, che davvero non se l’aspettava, quella chiamata al fronte.

La fame, prima: quella del secondo di sette fratelli, orfani di padre. E poi il cauto ottimismo, quando, chiamati gli uomini abili alla guerra, la richiesta di lavoro nei campi era un po’ cresciuta, per loro ragazzini. E poi la festa del Carnevale – l’euforia neorealista per una pentolata di maccaruni col sugo di guanciale da mangiare tutti insieme -, funestata dalla notizia della leva classe ’99. E poi i campi di addestramento, la diserzione e finalmente al fronte. Quanta sapiente capacità prossemica e narrativa, nell’evocazione di quel treno e della sua interminabile corsa, dalla Sicilia al Veneto, stipati, stretti stretti, in convogli, che di solito portavano 8 asini, ma in cui venivano caricati fino a 40 soldati.

E poi la Guerra. Il loro atterrito partire alla carica, inciampando nei cadaveri dei caduti, li aveva trasformati in macellai: quanta straziante atrocità sigillata nelle reticenze e in quei non detto, estremo atto di pietà di fronte alle bestie, ch’erano diventati. A stento riesce a trattenere le lacrime, il personaggio; a stento l’attore riesce a mutare, ancora una volta, d’umore e timbro, sfoderando la sua invidiabile tavolozza di colori, virtuosismi e straordinaria abilità e allenata naturalezza attoriale.

Fa sua la stessa lingua dialettale, con cui l’ormai attempato Rabito si sforzò di rendersi comprensibile. A distanza di parecchi anni, infatti, l’anziano siracusano ha affidato i suoi ricordi di una vita alla scrittura di pagine fitte fitte, battute su una vecchia Olivetti e con nessun’altro segno d’interpunzione, che il punto e virgola a separar le parole. Una lingua arcana, la sua. Sbracata e improbabile, fa mille piroette attorno a un italiano, che resta bramato, ma mai raggiunto.
È come il sublime balletto della Terra attorno al Sole: si allontana, si avvicina, si ecclissa, eppure rimane sospesa in un equilibrio, che sa di vertigine.

L’occasione – ghiotta -, per assistere a questo spettacolo, ce l’ha fornita la sempre più diffusa tendenza di portare il teatro negli appartamenti: in questo caso, il salotto milanese di M.I. Non è soltanto un pretesto per socializzare. Questa modalità offre in più una vicinanza attore/pubblico, che difficilmente si riesce ad avere a teatro, per non parlare della sensazione palpabile di koiné, fra i fruitori, che immediatamente ci catapulta in esperienze altre nello spazio e nel tempo. E non importa se siamo in una casa della media o alta borghesia – occorrono saloni sufficientemente capienti, per poter accogliere un per quanto sparuto pubblico -: qui non esistono poltronissime e posti in galleria e perfino il critico, se vuol assistere alla serata, democraticamente paga il suo biglietto intero.

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Certo, resta da capire perché a fronte di un pubblico ben felice di accorrere a vedere teatro a casa di, la gran parte dei teatri facciano tanta fatica per riempire sale pensate, appunto, per ospitare il pubblico. Eppure il comfort offerto dalle poltroncine rosse o anche dalle più spartane platee dei teatri off è spesso maggiore rispetto alle spesso improvvisate sedie, giustapposte, fitte fitte, in appartamenti certo non pensati in modo funzionale all’acustica o alla tecnica necessarie a uno spettacolo.

Merito solo dei manicaretti offerti dalla padrona di casa? O, piuttosto, un sia pur inconsapevole desiderio di sentirsi protetti nell’intimità di pareti amiche e dall’entusiastica competenza di chi, a tal punto crede nella bontà di un prodotto, da mettere a disposizione casa propria?

“Non sei fregato veramente finché hai da parte una buona storia e qualcuno a cui raccontarla”, ha scritto, Baricco.

E chissà che la sola via di salvezza – laica! – e di reale resistenza politica ancora possibile non sia proprio questa forma di memoria collettiva, empatica e tridimensionale, che è il teatro –quando ancora raduna i vivi e li nutre, come ha scritto Mariangela Gualtieri.