A cosa (non) serve lo streaming: Calimero e Mangiafuoco

Da lunedì 26 aprile via libera, pur con tutta una serie di indicazioni e inevitabili limitazioni, alla normale vita sociale aggregativa, ivi compresa la possibilità di tornare nei cinema e teatri.

Eppure, in tutti questi mesi di lockdown, il teatro – meglio, alcune sue frange – non si è dato per vinto.
Svariati sono stati i tentativi di cercare di replicarlo – per quanto replicabile possa essere, in assenza, una simile forma d’arte. Sono nati il teatro d’asporto, i podcast e mille altre diavolerie, al punto che, il “teatro”, si è pensato di somministrarlo perfino al telefono o via citofono.

Ma cos’è, che, da sempre, ci ha  attirati, del teatro – così come del circo e di tutte le altre forme di spettacolo dal vivo – se non il fatto che vive e si compie nella compresenza fisica dell’istante? 

Ruba un po’ alla vita, con quella sua meravigliosa caducità. Prezioso e ultimamente irreplicabile: quanta generosità occorre per mettersene al servizio? Fragile e imperfetto, proprio per questo è necessario – con quel suo forsennato The show must go on, che solo chi abbia sperimentato sulla propria pelle l’inabdicabilità dell’esistenzialissimo nonostante tutto può davvero capire.

Potrebbe essere un'immagine raffigurante 1 persona e spazio al chiuso

Ecco in che senso il teatro è strutturalmente resistenza. Dice di quella bellezza e generosità, che si compie nella vulnerabilità del dal vivo, dove non puoi sbagliare – e, siccome poi succede, ecco che il teatro si fa pas-à-deux, che respira della reciprocità osmotica palco/platea.

E poi c’è lo streaming

La scommessa è che anche il teatro possa impararne l’idioma, creando, per partogenesi, una nuova forma di sé. Adattarsi per sopravvivere a questo nuovo tempo: eccone, l’attuale diktat – e chissà se resterà tale o non sarà invece destinato a sopravvivere quale nuova mutazione evolutiva su scala mondiale. Il teatro, del resto, è endemicamente fenice: sul punto di morire da 2500 anni, eppure…

Si fa presto a dire streaming

Intanto, via streaming non passa soltanto il teatro; secondo, poi, come ci sono mille modi – e testi, drammaturgie, regie, intenzioni e azioni – teatrali, altrettante sono le possibilità di fare teatro in streaming.

Abbiamo detto già della riscrittura per lo streaming di “Santa Samantha vs” di Rosario Palazzolo.

Ieri sera, 24 aprile 2021, da quello stesso Teatro della Contraddizione, da dove pure Palazzolo ha puntualmente offerto alla scena meneghina i suoi spettacoli, è stato trasmesso “Il più grande spettacolo del mondo” di Stefania Apuzzo, pure alla regia (teatrale).

La sottile differenza fra teatro in streaming e teatro per streaming

Quel che è andato in scena, ieri sera, dal Teatro della Contraddizione, infatti, è stato a tutti gli effetti uno spettacolo teatrale dal vivo e, date le ancora vigenti interdizioni, trasmesso in streaming.

Valore sicuramente aggiunto è stato il voler rispettare il requisito, tipicamente teatrale, dell’istantaneità. Convocati, come in una replica dal vivo, gli spettatori ad un dato orario – pena l’impossibilità di fruire dell’evento, per godere del quale era stato giustamente chiesto di corrispondere un sia pur simbolico prezzo -, il primissimo effetto sortito è stato il ricrearsi di una comunità. Complice anche il fatto che si tratta di un teatro off, come si dice, e, quindi con un parterre di aficionados spesso legato alla scuola di teatro e svezzato con la loro cifra poetica, è stato fin da subito evidentissimo il clima festoso. Tutt’un pigolar di esclamazioni amicali e giocose, per quel pubblico spesso emozionato e commosso, nel rientrare, sia pure via chat e attraverso l’occhio (in)discreto della telecamera, in spazi battuti e abbandonati da tempo… E, questo, ha certo un senso teatrale.

Tipicamente teatrale anche la messa in scena – oltre al “prodotto”, anch’esso, come nei commenti a fine serata è stato pur scritto, “tipico del TdC” (acronimo di Teatro della Contraddizione, nel gergo degl habitués). Tipicamente teatrale, però, anche quel modo di sovrascrivere la regia video a quella teatrale. Spesso indugiando sull’estetica dell’inquadratura a discapito di una visione più libera e d’insieme, quel che è mancato – da questo punto di vista – è stato un senso (drammaturgico).

Delle due, l’una

O la telecamera è dichiarataperché si fa personaggio della storia, voce narrante o le si inventa comunque un ruolo e gioco nella pièce – oppure, come un buon maquillage, deve diventare il più invisibile possibile.

Ieri sera, nessuna delle due; anzi. Lo sguardo dello spettatore era spesso precettato a cogliere la finezza di dettagli o l’estetica di certe inquadrature/tagli di luce, che il libero occhio del pubblico dovrebbe avere la possibilità – e il piacere… – di cercarsi da solo. Se no, è pedagogia teatrale – che va bene, ma all’interno di un percorso dedicato…

Luca Ronconi usava l’espressione “telefonato”

Pure la drammaturgia, nonostante quella nota di regia – che lasciava ben sperare.. -, risente di un’ars affabulatoria un po’ scontata. “Il progetto ha avuto inizio quando, indagando sul mito di Prometeo, ho trovato nello scritto di Eschilo la matrice della civiltà europea/occidentale. Una matrice che indica il sacrificio come unica forma di esistenza, la solitudine come condizione unica e favorevole, l’essere maschio più vicino al Dio e l’aspettativa più rumorosa della speranza. Ed ecco l’uomo di oggi: solo e schivo, autoincatenato al sacrificio su un abisso di aspettative.”, si legge, salvo poi tradurre questo graffio in carezza.

Il più grande spettacolo del mondo. Anteprima. IN DIRETTA | IN DIRETTA - TDC

Due solitudini abitano un circo. Lei è la Donna Cannone, lui il Direttore. Si preparano per portare al pubblico “Il più Grande Spettacolo del Mondo”. Peccato, poi, che sia lei – l’attrazione, a servizio – che lui – al comando, sulle cui spalle grava il successo dello spettacolo – vengano ridotti a figurine bidimensionali. Improbabili eroi di antieroiche esistenze, sciorinano una serie di luoghi comuni appena sfiorati – dall’ansia di prestazione all’incomunicabilità, dall’ipocrisia schiacciante da aspettativa sociale fino alle dinamiche di promozione, organizzazione e ricerca attiva del pubblico nella distribuzione di uno spettacolo teatrale – senza mai affondare davvero.

Un rosario di dèjà vu

Scomodano la saggezza popolare – “Chi fa da sé, fa per tre” o “Una mano lava l’altra…” – come la liturgia cattolica – “Ma di’ soltanto una parola… ed io sarò salvato!” -, passando attraverso evocazioni letterarie – quanto non detto cechoviano, in quel: “I panni sporchi… No, questo non lo devo dire” – o pop – l’immaginario della Donna Cannone di De Gregori -, ma senza arrivare in definitiva a nulla.

Una giostra/carillon, era la promessa nella presentazione di quello che si auto preannunciava: “Uno spettacolo sulla tenerezza, sulla pietas -ma non verso gli altri- verso se stessi”. Chissà che non abbia giocato a suo sfavore questo, come l’inevitabile eco felliniana de “La strada” (1954), nonché quella dell’omonimo “The Greatest Show on Earth” di DeMille (1952).

Peccato

Peccato perché gli attori in scena sono stati capaci e generosissimi. Francesca Biffi, una Donna Cannone, che pur costretta a un birignau roco e querulo per oltre un’ora e mezza, non ha mai smesso quello sguardo sgranato da Calimero al femminile – paragone, forse, suggerito anche dalla cuffietta sul capo e dalle forme rotonde dei come sempre garbati e delicati costumi da lei stessa ben disegnati.

A Luigi Guaineri, poi, nonostante fosse intrappolato su trampoli che non ne hanno certo semplificato la deambulazione, l’onere di una fisicità e prossemica grottesche da Mangiafuoco intrappolato.

Due dettagli, a chiosa: i calzini intenzionalmente spaiati e un po’ shabby chic del Direttore che dorme e quel rossetto meravigliosamente sbavato, a fine replica, della Donna Cannone. Eccola, la differenza fra il teatro un po’ costruito ed estetizzante e quello vero e sudatoe che, anche attraverso l’occhio di obbiettivo meccanico, che forse gioca un po’ troppo a fare il deus ex machina, è pur comunque un modo per continuare a creare comunità e ascolto, confronto, socialità e, mi si consenta, in questo aprile, resistenza.