Premio Rete Critica 2018: dovere di cronaca, diritto di dissenso

Dovere di cronaca, diritto di dissenso. Così, il 16 dicembre 2018, all’indomani delle proclamazioni ufficiali, plateaLmente ha annunciato sui social i vincitori del Premio di Rete Critica, ovvero una quarantina di siti e blog di informazione e critica teatrale, così si legge nel loro stesso sito. Se il dovere infatti era quello di dare spazio alla notizia – tanto più che anche plateaLmente era fra i votanti -, il diritto – sacrosanto! – è di quello dissentire da una scelta non tanto di gusto ergo insindacabile…, quanto estetica in quella accezione intima e profonda, che non può non avere a che fare con l’etica – e, di conseguenza, con la deontologia.

Per la conclamata glasnost che contraddistingue Rete Critica, finalisti e vincitori sono visionabili già in home page.

Nessuna scelta neutra

Nessuna scelta è neutra – ce lo insegna bene chi conosce e maneggia la comunicazione quotidianamente. La locandina, ideata per annunciare già la finale, pone fin da subito al centro coloro che, profeticamente, si sarebbero rivelati i vincitori. Una scelta pop, probabilmente. Una volta deciso di immortalare i concorrenti della sezione Spettacolo-Compagnia – sarebbe interessante, poi, capire chi decida cosa, in una Rete che pur ama vantarsi di una pariteticità ideale alla Re Artù -, il posto d’onore è andato all’attore Lodo Guenzi, qui uomo-immagine della compagnia finalista Kepler 452 (di cui, per altro, è collaboratore solo occasionale), ma, più trasversalmente conosciuto, fra i cultori della musica indie rock, per la sua appartenenza agli Stato Socialeoltre che, dalle miriadi di tele appassionati di X-Factor, di cui il giovane riccioluto è uno dei giudici.

Ma non è questo, il punto. Il punto è l’oggettiva sperequazione dei candidati: Kepler 452, meno di un quinquennio di attività (certo interessante e sfidante, pur giocata quasi esclusivamente nell’entourage bolognese) e un Mimmo Borrelli, ad esempio, che, ancora giovanissimo, già nel lontano 2005 aveva folgorato un indiscutibile critico quale Franco Quadri, che, in occasione del Premio Riccione, per “‘Nzularchia”, lo aveva definito: «uno scrittore furibondo, fluviale, forte, già importante». Borrelli aveva allora solo 26 anni.

E poi 50mila versi sciolti composti in 10 anni, un lavoro sulla lingua di recupero delle sonorità e tradizioni perdute e la capacità di mixare l’alto (fino al culminare della tragedia, genere che nelle di lui visceralità ancestrali torna a prendere corpo) e il basso di spaccati socio culturali e umani dalla elementarità così basica da diventare oscenamente sfidante e responsabilizzante; completa il quadro una performatività dirompente, pur nella ferrea disciplina attorale. Non meno ragguardevole l’impegno sul territorio: civile e sociale (in un tessuto dalla grana complessa come quello di Bacoli e dintorni, ad esempio, dove da anni porta avanti il suo Efestoval) e impreziosito da collaborazioni importanti, sia sul versante artistico (Toni Servillo), che non (con Roberto Saviano, ad esempio, il progetto/spettacolo “Sanghenapule”, sempre a proposito di impegno).

Tutto questo non è certo passato inosservato sia in ambito nazionale (Biennale di Venezia), che internazionale (Istituto Italiano di Cultura a Parigi).

Il chi e il cosa

Ma, forse, non è nemmeno questo, il punto. Fino a qui, potremmo ancora muoverci nel campo minato del “gusto”, diciamo così. Sarebbe invece interessante capire a chi – tipologicamente – Rete Critica guardi nell’assegnare il Premio (e forse pure iniziare a interrogarsi sul senso di premi sempre più spesso composti da giurie di dejà vus – in altri premi, in altre giurie… -, oltre che inutili – se non, al più, al lustro -, dato che spesso non solo non sono in grado di sostenere i vincitori né nella produzione, né nella distribuzione degli spettacoli, ma, in alcuni casi, non offrono neppure la consolazione di un oggetto feticcio da esporre, nel salotto buono, ad usum e memoria della fama che fu…)
Agli emergenti? (e, allora, la candidatura di Borrelli sarebbe quanto meno fuori luogo). O a progetti distintisi per la durata e straordinarietà degli effetti conseguiti nel tempo? E allora come spiegare il mancato superamento del turno di uno spettacolo-progetto come “Otello Circus” – ultima ed unanimemente riconosciuta come eccellente fatica di Teatro La Ribalta (che, nel corso degli anni, è riuscita ad accreditarsi come la prima compagnia di professionisti disabili)? E però è vero pure che non si può guardare solo al Teatro Freack (ovvero al rapporto fra Diversità e Teatro, attorno cui Rete Critica si è pur interrogata da un punto di vista teorico e scientifico in un recente convegno a Vicenza). Resta il fatto che, a scorrere gli elenchi dei candidati e vincitori anche delle passate edizioni, spesso tornino tematiche/spettacoli di valore sociale, da “Case Matte”, vincitore, nel 2015, per la categoria Organizzazione/progetto, agli stessi vincitori di quest’anno in tutt’e le sezioni.

Il costo della Critica

Sarebbe poi offensivo del comune buon senso (o, forse, del comune buon gusto), rimarcare quelle sottilissime risonanze talvolta ravvisabili fra gli interessi di certi giurati e quelli delle compagnie vincitrici (o degli enti che li producono). Ma qui davvero entreremmo in un campo tanto minato quanto inesauribile: qual è, il ruolo della Critica oggi? E come si sostiene, economicamente, quella pletora di più o meno accreditati, appassionati e spassionati flaneurs curiosi ardimentosi? Il più delle volte mettono i propri occhi e cuore e competenze, umori e visioni al servizio di un sistema cultura e teatro, che, al più, li omaggia di una fruizione a costo zero; ma è evidentemente questo che non compensa neppure le spese vive. Un tempo algida, inarrivabile e imprevedibile come un flagello divino, la Critica – o quel che ne resta – negli anni si è fatta sempre più vicina, engagée e militante al punto da diventare embedded – e questo, dichiarato, sarebbe anche legittimo, oltre che un modo per chiamarsi fuori da dinamiche, che abbiano la pretesa dell’imparzialità in giurie di presumibilmente supra partes. Oggi è diventata così liquida da sbarcare il lunario facendo funzione di uffici stampa, dramaturg di festival, addetti alla comunicazione, social media partner… quando non addirittura quelle professioni direttamente chiamate in causa quali attori e registi. Oh tempora, oh Mores…
Ma il rischio è di risultar nostalgici; torniamo, invece, al Premio (Rete Critica 2018) e ai premiati.

Il come non è meno sostanziale del cosa

Il punto è che non si può additare a exemplumperché questo, idealmente diventa, uno spettacolo che abbia vinto un premio –, un lavoro che, pur partendo da un’intuizione ottima – forse non originalissima, ma certo interessante -, non sappia declinarla in modo consono.

Incuriosisce e affascina l’idea di aver colto il parallelismo fra l’espropriazione e lottizzazione del giardino dei ciliegi – lo Spettacolo vincitore del Premio Rete Critica 2018 è, appunto, ne è una riscrittura – e il sinistramente analogo destino della bolognese casa popolare (con annessa proprietà) sulle cui ceneri oggi sorge FICO Eataly World. Al contrario, lo spettacolo maldestramente gioca a mettere in scena l’ammiccante storytelling della coincidenza fra il tempo delle prove del classico cechoviano da parte dei ragazzi della compagnia e l’in parte casuale e in parte cercato, voluto e perseguito incontro con Annalisa Lenzi e Giuliano Bianchi, la coppia di sfrattati – in questo caso i conclamati “experts of everyday life, come li definiscono i Rimini Protokoll”, come si legge, con citazione quasi di per se stesso auto legittimante, nella scheda di presentazione della compagnia Kepler 452 nel sito di Festival 20 30.

Come burrosi torcetti ungheresi

Un pastiche. Intanto, se di teatro sociale vogliamo parlare – e dell’indagare e mettere in scena le vite e le biografie di non professionisti, magnificandone le identità sulla scena, ibidem -, che senso ha sovrapporre e poi intrecciare questa cosa con una recitazione ora accademica – quasi a mostrarsi dei “Picasso”, sì, ma, di Picasso, rivendicandone anche le capacità convenzionali -, ora colloquiale, ad attirare quel pubblico poco incline a entrare nelle sale teatrali, a cui la giovane compagnia dichiaratamente si rivolge? È come annodare torcetti di frolla e pasta sfoglia: un risultato sublime, ma solo se il tutto arriva a giusta cottura. Ciò a cui invece si assiste in questo spettacolo è il tempo, “sgangherato”, del racconto dei due testimoni-della-vita-di-ogni-giorno (libera traduzione di quel “experts of everyday life”), malamente assortito – e peggio ancor intervallato e diretto – col recitato “soffiato” di Nicola Borghesi (pure regista), il pop volutamente spinto di Lodo Guenzi – le repliche dello scorso ottobre al Teatro Franco Parenti di Milano iniziavano con una fors’anche liberatoria “Una vita in vacanza”, di paternità guenziana, a dichiarare ergo esorcizzare l’ambascia – e il quasi patetico cantilenato di Paola Aiello versione mastrina accomodante.

Ma, fino a qui, in fondo è ancora questione di gusto.

Una Rivoluzione legittima, “…se sai COME farla” (cit)

Dal gusto si scollina, a parere di chi scrive, quando Annalisa e Giuliano vengono buttati in scena, in pasto al pruderistico bisogno del pubblico di sentirsi buono. Trattati con un’accondiscendenza che urta la dignità dell’adulto, vengono ostentatamente accompagnati a rivivere i fatti con una frontalità – emotiva, prima ancora che prossemica -, che nulla ha da invidiare all’oscenità di certi primi piani della così detta “tv verità”. Bardati ed addobbati con pesanti pastrani e colbacchi di pelliccia – a fare il verso ai personaggi cechoviani -, ci vengono mostrati danzare – metaforicamente – col passo incerto e sgraziato di rustici orsi mal ammaestrati, costretti al ritmo incontenibile dei loro dolorosissimi ricordi – come mostra, in crescendo, il finale. Vogliamo chiamarlo teatro sociale o di denuncia? Provocazione intellettuale? Attualizzazione in grado di rivelare la funzione realmente e intimamente politica del teatro? Negli intenti probabilmente sì.

Nella pratica, andare a scuola dai grandi – vedi Milo Rau e il prezioso lavoro di tutela dei suoi experts of everyday life, fatto, ad esempio, in “Five easy pieces” – pare non essere una brutta idea.