“Monologo della Buona Madre” fra luci e ombre

Incastonato nella rassegna Nuove Storie del Teatro Elfo Puccini di Milano, dal 10 al 14 giugno 2024 è andato in scena il “Monologo della Buona Madre” della Compagnia Barletti/Waas. Operetta dal fascino prepotentemente iconico, colpisce per una serie di scelte registiche, dal fascino singolare, certo, ma che rischiano di rubare la scena alle pur risuonanti parole.

La lusinga della forma

L’ingresso è d’impatto. La sala già in penombra e, al centro, il solo bagliore punta su un’alta struttura trapezoidale, ammantata da un drappo nero; alla sommità, immobile, svetta, lei, Lea Barletti alias la Buona Madre. L’abito, rigorosamente nero, la inchioda al prototipo delle figure femminili di tanta parte della cultura arcaica del mediterraneo; il volto, smaccatamente pallido, immediatamente riporta all’immaginario tragico della prefica – o della Madonna delle Sette Spade, vista in certe chiesette barocche del Meridione. Quasi a rinforzare l’immaginario sacro, una targa, ai suoi piedi; l”iscrizione: “Tecniche e materiali misti”, lo suggerisce già che sarà un viaggio sui generis – tanto più per la perturbante presenza, un po’ celata dall’ombra, in basso a sinistra, di un basso elettrico, lui pure posato su un seppur piccolo basamento.

La componente sonora

A dare inizio alla pièce, è l’ovattato ticchettio, al cui richiamo pare riaversi. Quasi lugubre figurina di un carillon drammatico, ciascun rintocco pare trafiggerla – meglio, punzecchiarla, come la pletora dei vermetti fosforescenti e ragni dei suoi racconti, psicanalitico stigma delle sue paure e frustrazioni. Ogni singolo rintocco le ridona tono, le riaccende gli occhi e la postura, le scioglie i movimenti e, finalmente, la parola. E quel che ci racconta, in quel suo strano, monocorde e talvolta arguto, istrionico falsetto, sembra la restituzione teatralizzata dell’esito di un finalmente pacificato percorso di autocoscienza femminista.

Altro elemento sonoro è il sottofondo musicale: un tappeto scomposto, che mai assurge alla fluidità della melodia – e che subliminalmente ci mantiene ancorati allo strumento muto, là, in basso a sinistra. La sua lucida sagoma, svettante, nella penombra, chissà che non alluda al rimosso simbolo della performatività maschile.

Il racconto

Già, perché quel che ci narra, riemergendo dal quel suo singolare torpore, è l’essersi finalmente liberata – così dice – dal senso di colpa e d’inadeguatezza, quasi connaturato al suo status di donna. Per summi capiti, ne ripercorre le tracce – dai turbamenti pre adolescenziali all’apparente realizzazione nel corpo di madre, senza tralasciarne gli sgomenti e le fatiche, la frustrazione e il disperante bisogno di riconoscimento, fino ad ammetterla, quella bulimica urgenza d’amore, capace di piegarci al più depersonalizzante dei come-tu-mi-vuoi (purché non mi abbandoni).

Eppure il maschio non è visto come il nemico. In omaggio, forse, a quei processi di autocoscienza collettiva, che, dalla donna, evolvettero verso l’individua – travalicando, poi, i confini di genere, fino a coagularsi nei movimenti antiautoritari tout court -, l’opposizione, qui, non è all’uomo, ma al patriarcato. Così, non fa specie che il suo lui ne esca quasi come un semi dio: imperturbabile, organizzato, capace, di fronte a una lei, troppo spesso sull’orlo di una crisi di nervi, travolta, com’è, da un’ansia di prestazione, nel da lei percepito come vano, ergo frustrante, tentativo di eguagliarlo.

La componente visiva

Ed è forse qui, che il monologo ci offre la componente più visionaria. Basta un semplicissimo gioco di proiettori fissi ed ecco che la sua ombra si moltiplica, ad arte e in modo coerente alla narrazione/ confessione. È così che ci rivela i suoi ego: quello narrante e incarnato e quello che la osserva come da fuori, in alto a destra. Come non pensarlo, quest’ultimo, in psicanalitica antitesi con lo strumento dalla forma fallica, posato sul suo apposito piedistallo, là, in basso a sinistra?

Ce n’è poi un terzo: una sorta di campo lungo, a cui non è assegnabile una posizione precisa nello spazio, si affretta a spiegarci lei, ma che comprende i primi due, strombandosi, come in un gioco caleidoscopico, ottimamente reso dalla drammaturgia di teatro d’ombra.

Ecco: forse sono proprio queste componenti non verbali a risultare infinitamente più evocative e affascinanti di quei pur sacrosanti discorsi d’autocoscienza femminista – ma, chissà, in parte, forse un po’ datati, e, in parte, forse affidati ad un registro espressivo intenzionalmente brechtiano ergo inevitabilmente respingente il transfert teatrale. Ci affascinano, a tratti, le sue parole. L’acufene del dubbio è solo una delle chicche della scrittura, a tratti, ricercata e preziosa, per poi precipitare nelle volgarità liberatorie del parlato – questa, pure, necessaria tappa di affrancamento della stereotipizzazione del come-tu-mi-vuoi.

Concludendo

In conclusione, uno spettacolo sicuramente singolare e affascinante, questo “Monologo della Buona Madre” di e con Lea Barletti e Werner Waas, ben curato, ricco di suggestioni e spunti di riflessione importanti. Però, anche un lavoro, che pare risentire di quelle stesse pecche, che la Buona Madre imputa a sé. “Troppa carne al fuoco”, dice di sé, che si riconosce in un esilio auto imposto, dovuto al suo voler tutto e non saper scegliere, in una quasi superomistica convinzione di aver abbastanza energia per poter fare tutto. Certo: quello che parla è il personaggio… eppure la sensazione di aver assistito – e non partecipato – ad una performance resta.