Molière, Arturo Cirillo e la deliziosa farsa in una casa di bambola

“Chi la fa, l’aspetti”. Potrebbe essere questo, l’assioma a coronamento – ma, in verità, già a fondamento – de “La scuola delle mogli”. Scritto con cui Molière inaugurava la sua riforma della Commedia dell’Arte (di cui spasmodicamente conservava il lieto fine con una tal ostinazione da costringersi alle più improbabili delle forzature), a oltre 350 anni dalla sua stesura, questo testo sembra non aver perso nulla della sua efficacia. O, almeno, questa è la sensazione che si prova a vederlo nell’allestimento di Arturo Cirillo (nel doppio ruolo di regista e protagonista dello spettacolo), in scena al Teatro Elfo Puccini di Milano dal 26 febbraio al 10 marzo 2019.

La trama è poco più che quella di una commedia degli equivoci: il cornuto scornato, che, per evitare altre cocenti delusioni, decide di crescere una fanciullina di umile estrazione nella più totale ignoranza di ogni malizia. Poi, come capita, il diavolo – sempre a proposito di corna – ci mette la coda e la ragazza s’innamora di un giovane pretendente. Da agnellino ignaro – non a caso, forse, il suo nome è proprio Agnese -, si trasforma in donna volitiva e sempre più consapevole, sfoderando malizie e prese di posizione, che davvero non si riesce ad indovinare dove mai possa averle imparate. Per ironia della sorte, sarà lo stesso giovane innamorato a confidare, ignaro, le proprie afflizioni all’attempato benefattore dell’amata, rimettendo nelle sue mani la giovane così faticosamente strappata proprio a quelle grinfie. Ma poi, come si dice? Il diavolo fa le pentole, ma non i coperchi. Così tutte le macchinazioni verranno a galla, sconfiggendo le bramosie dell’anziano e facendo trionfare l’amore fra i due giovani. E quanto ancora c’è, in tutto ciò, degli stereotipi della vecchia Commedia dell’Arte!

Così forse non è un caso che, pensando al registro attraverso cui portarla in scena, Cirillo ne faccia una farsa. Pittoresca, eccessiva e volutamente sopra le righe, ne elegge il modus a elemento drammaturgico e critico, quasi a denunciare non solo la presunta e risibile inattualità – ma poi siamo davvero sicuri che onore, tradimento e corna non siano ancor’oggi temibili spauracchi e cagione di sofferenze così lancinanti da sfociare in efferati delitti? -, ma anche – con tocco leggero – l’effettiva pochezza dell’oggetto del contendere. Cos’è, del resto, questa estrema onta che tanto indigna e terrorizza il protagonista Arnolfo? “Le corna si possono dipingere in modo meno nero: basta saperle far ruotare”, minimizza l’amico Crisaldo; e rincara, aggiungendo argomentazioni su argomentazioni contro la funesta fedeltà, in cambio della quale certe mogli oneste infliggono infinite angherie.

Ed eccolo, un primo sprazzo di contemporaneità: la messa a fuoco dello iato fra un ideale socialmente riconosciuto, ma patito e amaramente scontato nel privato, e l’idealità di una situazione che, proprio in quanto tale, oltre che inarrivabile, si presenta tanto algida da risultare, al fine, probabilmente neppur così desiderabile. E in effetti così è, l’ingenua Agnese, alla sua prima comparsa in scena: talmente disarmante da far apparire qualsiasi gesto come candido e colpevole, semmai, chi non guardi coi suoi stessi occhi da novizia. Bravissima, Valentina Picello, a interpretarla, nel suo vestito/bon bon rosa confetto, con un’ironia, quasi alla Ionesco, capace di smorzare qualsiasi patetismo melò. Non da meno, gli altri attori del cast. Arturo Cirillo, per primo. Spumeggiante e surreale misantropo, che vede malizia e corna ovunque, è protagonista e voce narrante. Costantemente in scena, è lui a spingere un registro non rimato, ma ritmato e cadenzato quasi fosse una filastrocca o una parabola sapienziale dal rintocco antico, che contagia tutti. Non perde mai un colpo, né mai cala di tono. Interessante ed efficacissima è pure la sua regia, che sapientemente alterna serrate discussioni teoriche – con l’amico Crisaldo o con l’educanda consorte, su questioni teoriche o di principio – e battibecchi molto più prosaici e boccacceschi, coi servi (Marta Pizzigallo e Rosario Giglio) o col giovane Orazio (Giacomo Vigentini), a quadri di pura azione scenica. Qui sono le luci, le strobo e i vorticosi movimenti della casa-giocattolo a grandezza naturale a farla da padroni, al suono, in lontananza, di appassionate smorzate chitarre gitane: perché in fondo è di umane e densissime passioni, che si sta parlando. Eppure Arnolfo non tradisce mai quella sua aurea tutto sommato ancora da tipo, che mentre insegue e finge una rispettabilità sociale – non da ultimo, con l’éscamotage del nome della casata, per darsi un tono -, per altro verso non bramerebbe altro che quell’umano amore e quella comprensione, che non è certo lo status a potergli garantire.

Ecco perché la farsa si consuma in questo minuetto di silhouettes infantili. Quasi vezzosi manichini in una casa di bambola dalle movenze da carillon, tutti i protagonisti non sono che super marionette, apparentemente, di quel gran burattinaio che il padrone di casa s’illude di essere. Eppure,nonostante i costumi di scena splendidamente disegnati nella loro rotondità-giocattolo e in quella inscalfibilità che li fa rimanere perfettamente stirati, come in una set di Barbie – dove quel che succede non capita mai davvero: ergo, non impatta e non scompone -; nonostante tutto ciò, questi personaggi eccessivi – meravigliose, le pose plateali della servetta Giorgetta, una Marta Pizzigallo che fa tornare in mente la compianta Titina De Filippo – riescono a parlarci in modo meravigliosamente ironico e non dichiarato della comica imprevedibilità della vita.

Così quel chi la fa, l’aspetti, forse alla fine non ci dice altro se non che non tutto è programmabile e prevedibile. Per dirla con Amleto, ci sono più cose in terra e in cielo, Orazio – che era il nome anche del personaggio shakespeariano, oltre che, qui, del giovane innamorato -, di quante ne sogni la (tua) filosofia- Curioso: di lì a poco e proprio nella Francia di Molière sarebbe nato l’Illuminismo. Così, se su questa terra vivono esseri dalle risorse imprevedibili e dall’imprevedibile impossibilità di appiattirli in cliché – spiazzante, non tanto il mutamento di Agnese in preda alle smanie d’amore, quanto dei servi, non poi così rozzi e sprovveduti come amavano lasciarsi credere – , l’unico rischio, allora, forse è solo quello di rischiare di congelarsi in un’esistenza tanto stereotipata da profumar di caramella, sì, ma, proprio per questo, da restare asettica come il vestito in simil pelle color confetto, che l’Agnese ormai consapevole non indossa più, per conformarsi alla sgargiante fantasia del nuovo abito in linea con le chiassose fantasie degli altri personaggi da farsa.