Milano OFF Fringe Festival #2: teatro di parola e testimonianze al femminile

Iniziato già giovedì di settimana scorsa, continuerà per tutto il weekend, questa quarta edizione del Milano Off. Fringe Festival di teatro indipendente (ma non solo), anche quest’anno, si ripromette di aumentare FIL (Felicità Interna Lorda), esplodendo in spazi milanesi quanto più dislocati possibili e coinvolgendo quanti più partner artistici e commerciali e cittadini. Oltre alla FIL Card (che consente di accedere a sconti sugli spettacoli, sì, ma anche nei negozi aderenti), colpiscono le iniziative di coinvolgimento attivo della cittadinanza. Formula spesso usata nei festival è il Diventa un volontario, qui affiancata da Ospita un artista, in squisito spirito fringe; fra le altre, da segnalare la partnership con UGO, servizio di cargiver professionali, per consentire a chiunque di raggiungere le più dislocate location.

La Fabbrica del Vapore: cuore pulsante del festival

Il cuore pulsante del festival è alla Fabbrica del Vapore, dove, oltre al direttivo operativo, per tutto il tempo è rimasto attivo quel Village Off, che ha ospitato esposizioni, mostre, incontri tra artigiani e operatori dei diversi settori delle arti performative. Ecco gli spettacoli di venerdì 30 settembre in Sala Donatoni (programmazione a parte, quella in Sala Fringe).

“Volo”, monologo sulla violenza domestica

Il primo ad andare in scena è stato “Volo” di e con Francesca Brizzolara.

Incipit incerto

Una donna, in completo di pelle bordeau, brandisce una katana. Ai suoi piedi, un tappeto di feuilles mortes – e l’afrore ci riporta subito alle atmosfere amare di Yves Montand. Eppure lei non parla di rimpianti. – ma in fondo un po’ anche sì, in quel tornare a domandarsi come avesse fatto a ricaderci. Coi gesti goffi di chi evidentemente non è avvezzo all’uso alle armi, farnetica di un suo Oloferne, a cui ha mozzato la testa. Impossibile non pensare alla vicenda – artistica e umana – di Artemisia Gentileschi e alla scabrosa, ancorché umanamente comprensibile, legge di sopravvivenza. Già perché talvolta si uccide, approfittando di un momento di debolezza dell’avversario, per non dover soggiacere alla sua barbarie o, peggio, per non diventar vittima di se stessi pur di annichilire il carnefice.

Poi l’atmosfera scolora nei colori giallo fiorati e bianchi della casa ideale alla “Happy days” – e lei, spogliandosi dalla divisa da combattimento, si riveste con l’abito anni ’50 della perfetta mogliettina.

Un racconto in (altri) 6 quadri

Ce li sciorina tutti numerandoli, i quadri, come li definisce, in cui si snocciola quella storia di ordinaria violenza domestica – in fondo, quei sei gradi, che la separano dall’epilogo. E il tono cambia. La mitica donna con la spada cede il passo alla donna reale, che passa dalla vertigine dell’innamoramento allo sgomento di trovarsi accanto a quello stesso uomo, ma ad un tratto diverso. “Guardami – gli sussurra incredula e supplichevolesiamo sempre noi…”, ma non basta.

Come capita, le prime avvisaglie sono il malumore e poi l’escalation, per cui come fai, sbagli.

A nulla vale quel cercare di assecondarlo nel tentativo di tenerlo calmo. Basta un insospettabile nonnulla per far esploderlo in una furia distruttiva e crudele, che colpisce esattamente quell’innocuo che sa esserle più caro. A nulla basta, la ripetuta evidenza dello status quo, per persuaderla a non ricascarci. E, così, in quella casa-prigione ci torna – e ritorna – per le occasioni/motivazioni più disparate. “Quella volta era il tuo compleanno e io volevo essere all’altezza…”, “In fondo abbiamo una bambina…”, si ripete, nonostante che neppure la presenza della piccola riesca a preservarla dalle sue angherie. E poi la scoperta, a maturazione lenta e dolorosissima, che nessuno può aiutarti se non tu: evocativa, l’immagine della sua stessa ombra – gigante! -, proiettata alle sue spalle, quale unico reale gardian angel.

Una storia sulle punte

Commuove quasi, a tratti, questa storia sulle punte. Attraverso il suo corpo, pietra dello scandalo per l’uomo-padrone, l’attrice passa dalla narrazione fisica delle violenze subite alla sublimazione di quelle pulsioni ideali  in una danza da ballerina di carillon. Eppure non è la banalizzazione di un facile happy and. Mentre continua a stigmatizzare il comportamento di chi interpreta l’altrui percorso di autorealizzazione come un attentato (probabilmente alla propria insicurezza), non rinuncia a rivendicare il diritto di spiccare il volo. Un volo di liberazione e di pacificazione: e di perdono, che il solo modo per tornare a voler il giusto bene anche a sé, tramite lui.

“Romanzo di un’anamnesi” ovvero il fascino (in)discreto della normalità

Altro monologo andato in scena, a seguire, in quella stessa sala, è stato “Romanzo di un’anamnesi” di e con Sara Parziani. Anche qui la tematica è delicata (la malattia rara), ma i toni restano fra l’ironico, il garbato e il rarefatto. È la smorfia incredula di chi a un certo punto se l’è pur chiesto: “Perché a me?”. E: “Perché no” è stata la sola risposta, capace di tramutare la sofferenza in gioia (o, quanto meno, in quella rasserenata consapevolezza, capace ancora di sorridere).

La messa in scena

Quando gli spettacoli devono avere il valore aggiunto di essere montabili e smontabili in tempi rapidi e facilmente trasportabili, devono essere sempre pochi e ben scelti gli oggetti di scena. Qui, una poltrona da un ufficio, uno zaino, qualche libro e dei trucchi, capaci di trasformare il proprio corpo – odiato, amato, curato, piegato, sofferto e, com’è per tutti noi, forse solo alla fine vinto – in una lavagna, per dare forza e costrutto a parole mai gridate, ma il cui senso ci arriva forte e chiaro.

E fin da subito lei ci gioca, con quel suo corpo e con l’ottusa ripetitività degli esercizi fisici per ricondizionarlo. “Che se uno ha uno scopo, allora sì che cammina – ci confida ammiccante –; se no, tentenna…” Inizia così il suo racconto, con la cordialità e il garbo e quel pizzico di giusta autoironia, che a tutti noi vien da mettere in campo, quando ci troviamo a raccontarci per la prima volta a qualcuno. Già, perché questo è il punto: ascoltandola e guardandola – è la sua biografia: a cominciar dall’infanzia e poi la scuola, gli amici, il liceo, l’università, i suoi interessi e il mondo che le si dischiude davanti -, sorridiamo delle sue composte arguzie e non riusciamo a non pensare che, in fondo, non è che sia stato poi tanto diverso per noi sani. Di più: forse trasaliamo pure al suo chiederci: “Diversa? Diversa come? Voi come mi vedete?”, ripensando a tutte le volte in cui noi, teoricamente uguali, ci siamo davvero sentiti diversi.

E, così, le sue (dis)avventure si mischiano a quelle dell’eroina dei radiodrammi con cui da piccola ingannava le lunghe ore d’immobilità forzata – e la sua disarmante tenacia stempera quei piccoli/grandi drammi attraversati da ciascuno di noi durante il cammino.

E, allora, fors’è davvero questo, il punto: il potere liberatorio e pacificatore di una consapevolezza e di un’accettazione – autentica e non di resa -, quel fil rouge, svelato, che lega (e che ci lega) in questa serata teatrale.

“Nove”: epopea controcorrente al femminile

Chiosa in levare, come si dice, anche per “Nove”. Monologo scritto e interpretato dall’attrice catanese Egle Doria, per la regia di Nicola Alberto Orofino, arriverà a trattare di stepchild adoption e diritti delle coppie omosessuali – intanto, ripercorre tre generazioni di donne nelle loro differenti declinazioni. Anch’ella su una scena abitata da pochi oggetti, è uno strabiliante vulcano in piena nella coinvolgente narrazione di questa saga familiare.

Il Teatro: fil rouge fra le generazioni

E mentre, gigionescamente nevrotica, si chiede cosa portare in scena – “Amleto al femminile lo hanno già fatto tutte…”: un pezzo di bravura a cui ne seguiranno altri; fra tutti, il quadretto delle arcigne prozie dedite al ricamo -, lo “vediamo” a poco a poco quasi materializzarsi sul palco, quel rione fatto di rumori, voci, scambi di battute al fulmicotone, musica pop melodica suonata a tutto volume e quelle mezze risposte sarcastiche, che trasformano il “Cosa posso offrire al mio pubblico?” in un caffè (di cui per altro oggi ricorre la giornata mondiale) offerto direttamente al pubblico in platea.

Ed è così che sappiamo dello smodato amore della nonna per il teatro – oltre che per il nonno: di vent’anni più grande e, lui laureato, come ci teneva a sottolineare, e figlio di notaio, ciononostante dedito al calcio, giocato, prima, e poi allenato, attraverso quei ragazzini, tolti, così, dalla strada e allevati a palleggi e Pirandello. Veniamo a sapere dei loro boccoli biondi e delle figure dalla bellezza longilinea, del loro amore e di quel rapporto che la lasciava libera, così inviso agli occhi della famiglia d’origine di lui, composta da una litania di vedove e attempate zitelle, che la bravura dell’attrice ci tratteggiano con una mimica e sagacia al limite dell’evocazione. E poi la madre e quel loro rapporto specialissimo, fatto di letture e poesie – e di quell’augurio/profezia di una delle prozie il giorno della sua nascita: “Non ti sposare: libera e sola devi restare…”. Ed ecco finalmente lei, schiacciata fra il teatro e l’ingombrantissima adorata madre, fino alla sua morte improvvisa. Poi la depressione – sempre giocata, in scena, sulle corde lievi dell’ironia – e poi la rinascita, nell’incontro con l’attuale compagna, madre sociale tenacemente voluta delle loro desideratissima bambina.

Il prezioso fascino esperienziale de lu cunto

Vecchie storie familiari – le testimonianze di alcune delle loro voci reali riprodotte in scena -, i cui singoli fili dalle screziature più differenti paiono correre verso la realizzazione di quell’arazzo, che è il presente, con tutti i suoi umori, rumori, odori, fatiche, scoppi – di entusiasmi o arguzia poco conta -, in un caleidoscopio sempre in divenire, di cui questa versione dello spettacolo non è che l’edizione provvisoria. Non solo uno spettacolo godibile per la plasticissima versatilità, ironia e bravura di una attrice, mattatrice a tutto tondo, e per l’intuitività di una regia capace di creare mondi, evocandoli pur sine construtto in re. Un lavoro intelligente, nell’affrontare tematiche tanto delicate quanto attuali, mantenendole ancorate alle loro radici culturali e regalando loro le ali del coraggio; fare: fedeli a sé e senza lasciarsi condizionare dal giudizio altrui.