NuoveStorie_Maledetta Metropoli, sagace bartocciata di marionette irriverenti

Dal 2 al 4 maggio 2018 la rassegna “Nuove Storie/Nuove Famiglie” è proseguita, al Teatro Elfo Puccini di Milano, con “Maledetta Metropoli”. Scritta da Fabio Modesti e messa in scena attraverso i grotteschi burattini di Nicola Veri (che li manipola insieme a Daniele Guaragna), racconta la surreale vicenda di un non meglio identificato Forestiero. Giunto, neppure lui sa perché, nell’anonima metropoli di Milapoli“Anno x, ora tot”, torna a ripetere, puntuale, la didascalia sonora all’inizio di ogni nuova sequenza narrativa –, s’imbatte in personaggi strampalati ed urticanti, che mettono a dura prova la sua pazienza e il suo senso di realtà, fino a persuaderlo che la sola cosa sensata sia fuggire a gambe levate da quel farneticante tran-tran.

Il plot, in fondo, è un déjà vu. Dalla citazione decisamente pop de “Il ragazzo di campagna” con Renato Pozzetto, a, prima ancora, lo stesso Renzo manzoniano coinvolto nell’assalto ai forni di Milano, sono innumerevoli gli esempi dello spaesamento smascherante di chi giunge in città. Ce lo raccontano perfino le favole (Esopo, “Il topo di campagna e il topo di città”) o quel curioso caso che è il Bartoccio, maschera perugina, che affonda le radici nella Commedia dell’Arte e che usa il villano quale occhio incontaminato e lingua tagliente per stilettare gli usi e costumi di un modo di vivere, che risulta immediatamente assurdo a chi non sia intrappolato nelle sue spire.

Quel che ne vien fuori è un’abile bartocciata, ossia una satira affilatissima e crassa (da qui l’indicazione di spettacolo vietato ai minori di 14 anni), come può essere solo quella che si prenda la libertà di affidarsi a marionette impertinenti; al tempo stesso scusabili per la loro ingenua irriverenza, sono però poi anche sacrificabili, qualora eccedano. Ridiamo tutti di gusto, di fronte alle legnate liberatorie finali: in barba al politically correct, a cui ci affideremmo nella vita di tutti i giorni (e che infatti ci fa indignare, identificandoci con lo Straniero, per le condizioni di vita della piccola Luigina, ad esempio), qui, invece, sembrano avere la meglio l’impietoso spirito fanciullino, che ugualmente rideva di fronte alle immancabili mazzate ad Arlecchino o Pulcinella, o il populistico: “Dalli!”, gridato dagli spalti delle arene.

Quindi un’operazione arguta e stratificata, questa di Modesti, che si colloca nella più solida tradizione eppure lo fa per parlarci dell’oggi; lo fa con un’ironia e indignazione, che lo avvicina a castigamatti del calibro di Dario Fo e Roberto Benigni, di cui condivide la battuta sagace ed una leggerezza fustigante, sì, ma in punta di fioretto. Lavora in due direzioni, Modesti: drammaturgicamente, volge in azione scenica quello che era nato come un radiodramma (radiotrauma, lo aveva ribattezzato, con ironia aretina) e di cui sopravvivono la costruzione tutta sonora dell’ambiente urbano e le didascalie di raccordo fra i quadri narrativi; scenicamente, crea un enorme apparato ludico. Non solo un prezioso teatrino-scatola magica miniaturizzata dalle luci suggestive e ipnotiche, che catalizza l’attenzione del pubblico anche perché lo immerge in un buio senza via di distrazione; di fatto esplode anche l’artificio nella tridimensionalità reale, accogliendo il pubblico con quella caramella di cortesia, che, chissà, forse si troverà a scartare nello stesso istante in cui proprio di quello parlano i burattini e stordendolo con quella luce rosso rabbia, che monta, piano piano, alla testa del malcapitato specie nel delirante incontro con Coso, emblema e stigma della vacuità di una vita forse davvero in cattività. Poi la struttura narrativa è quella delle favole e delle filastrocche (pure questo ancoraggio alla tradizione popolare): perché è evidente fin da subito che quei venti euro rimastigli in tasca saranno tentazione irresistibile per i vari il Gatto e la Volpe, che incontrerà sul suo cammino e che, come in una nostalgica “Alla fiera dell’Est”, non gli verranno risparmiati. Eppure nel mezzo c’è un godibile intreccio, che sfiora surreali usi e (mal)costumi della cattività urbana, con figure grottesche e dalla meschinità esilarante ottimamente restituire dalle marionette del maestro Nicola Veri (di lui ricordiamo la versatilità come marionettista e intagliatore, oltre che come manipolatore d’argilla sia per la creazione di mascheroni e marionette giganti per le parate carnevalesche, che per laboratori con pazienti psichiatrici del centro diurno di Arezzo), anche manovratore insieme a Daniele Guaragna (clown di corsia, oltre che docente di teatro, clown e arti circensi). È che forse un lavoro così poteva scaturire solo dall’incontro di queste specificità; e cosa ci dicono, loro, a proposito delle Nuove Famiglie? Forse che ci son altrettanti modi di stare al mondo e di declinare questo tipo di vincolo; e chissà che non sia più famiglia il non disciplinato incontro con chi sappia farsi carico di un’ingenuità meritoria di esser preservata, che non il forse normato vincolo con chi sappia solo farsene aguzzino.

Dal 5 al 7 maggio si prosegue con “Stabat Mater” di Liv Ferracchiati, compagnia The Baby Walk.