L’inaspettata contemporaneità di Schnitzler

In scena con una lunga tenitura (dal 5 febbraio al 10 marzo 2019), al Teatro Out Off di Milano c’è qualcosa che non ti aspetti: “Fuga nelle tenebre” di Arthur Schnitzler.

Pensando a questo autore, più facilmente vengono in mente “Girotondo” o “La signorina Else”. Partitura espressamente drammaturgica la prima, una novella, in realtà, la seconda, in entrambi i casi ci troviamo di fronte a testi con cui il teatro è abituato a confrontarsi. Basta pensare al fenomeno “Weporn” – questa, la trasposizione di “Girotondo” fatta dal Teatro Filodrammatici ancora nel 2010 -, o alle tante messe in scena de “La signorina Else”: proprio all’Out Off, nella passata stagione, per la regia di Alberto Oliva, mentre, in quella attuale, lo si è potuto vedere, nella versione Lombardo-Tiezzi, al Piccolo Teatro di Milano.

Questo “Fuga nelle tenebre”, invece, lo scopriamo qui, all’Out Off, nell’adattamento di Lucrezia Lerro e Lorenzo Loris, quest’ultimo pure alla regia, in scena Paolo Bessegato e Massimo Loreto.

Un testo così, parla già da solo. Scritto sotto forma di diario – flusso di coscienza, aveva giustamente puntualizzato Freud, contemporaneo ed estimatore di Schnitzler -, è la narrazione, in terza persona fatta dal dottor Leinbach. Involontario confidente delle vicende dei due protagonisti – questo, l’espediente letterario -, è lui che si trova a raccontarle, appuntandone via via l’evoluzione su un diario, fino a farlo diventare preterintenzionale documento clinico.
E quanto è freudiano già questo…

Freudiana, poi, è la storia di Robert e del suo lento ma inesorabile sprofondare nelle tenebre delle proprie ossessioni; freudiano, il doppio legame col fratello e neurologo Otto, nelle cui mani pensa di serbare il proprio destino, salvo poi finire divorato dal tarlo che sia proprio lui a volerlo uccidere.

L’antefatto racconta di come Robert fosse rimasto talmente scosso dall’improvvisa pazzia di un amico, da decidere di affidare al fratello una lettera, in cui lo supplicava di farlo passare dalla vita alla morte nel modo più rapido e indolore, qualora avesse ravvisato in lui gli stessi segni di delirio. In fondo una sorta di testamento biologico ante litteram, con tutto l’annesso portato di responsabilità, qui aggravato dall’aleatorietà di sintomi, certo non così univocamente definibili, maneggiabili e curabili, quali sono quelli psichici.

Ma Otto è l’emblema dello scienziato. Freddo e razionale, a differenza di Leinbach – invece più incline ad esercitare una medicina affine al metodo meno ortodosso ma più umanizzante alla Freud -, neppure per un istante pensa di dar corso a quella richiesta farneticante. Eppure, nonostante cerchi di sostenere e supportare il fratello in ogni modo, questo non lo mette al riparo dai di lui crescenti sospetti; al contrario montano fino ad esplodere in un incontenibile delirio persecutorio, che travolge tutto e tutti.

Il resto è silenzio, verrebbe da chiosare con Shakespeare. Ci si sente quasi denudati di fronte a dinamiche così tragicamente sottili, da non essere tanto sicuri che non travalicheranno la finzione e non scenderanno giù dal proscenio, come in un paio di occasioni, in effetti, gli attori fanno.

Quel che fa la regia, in effetti, è costruire un ingranaggio talmente prevedibile e accogliente, che volentieri ci si abbandona. Sul palco oggetti di scena così smaccatamente ingombranti e retrò, che non si può non scivolare all’indietro, nelle pieghe della memoria, verso i pomeriggi asfittici, ma che poi profumano d’infanzia, passati nei salotti buoni dei nonni o delle vecchi pro zie… Le luci ci accompagnano per mano, illuminando ora uno, ora un altro di questi micro scenari, che improvvisamente si accendono di dettagli disarmanti. Che sia il minuscolo pianoforte a coda giocattolo, cifra dei cafè chantants frequentati da Robert, o l’enorme cavalluccio a dondolo a trainare la carrozza dei due fratelli – e che riecheggia il freudiano Caso del Piccolo Hans – , questi dettagli la dicono lunga sulla natura viscerale e probabilmente ancora irrisolta del loro rapporto.

Altro elemento di non minore importanza, qui, è la musica. Ad intervalli regolari s’insinua, sopraffacendoci emotivamente, nelle sue sonate struggenti e ariose di Chopin, Schubert e Fauré. La musica per me ha un carattere a-morale – non a caso confida Robert, abbracciato al minuscolo pianoforte giocattolo -, perché sotto al suo influsso sono più propenso ad assolvere… Come non pensare all’appassionata apologia nietzscheana della musica – Senza la musica la vita sarebbe un errore –, ma anche al suo essere elemento primigenio nel dionisiaco, nonché correlato con quella a-moralità, di cui proprio lui fui sistematico teorico?

Ma tutto questo non sarebbe forse abbastanza, se non ci fossero, in scena, due attori assolutamente all’altezza di farlo vivere. Di Robert, Paolo Bessegato sa trasmettere i mille turbamenti, sbalzi d’umore, amori, eccessi e baratri pur in una misura in minore e coerente con la cifra registica. Straordinario poi Massimo Loreto, dalla fisicità certo pacata, ma compensata da una generosità e – soprattutto – perizia, che gli consentono di farci arrivare le deliranti proiezioni di Robert su tutti gli altri personaggi (Otto, principalmente, ma poi anche la cognata e Leinbach; la prima moglie Brigitte e poi la nuova compagna Paula). Con una maestria quasi dissimulata scivola meravigliosamente fra il recitato delle pagine del diario-racconto, per poi subito dopo accendersi, senza soluzione di continuità, ora in questo, ora in quel personaggio, talvolta aiutato dal cambio di un indumento (come nel caso dei ruoli maschili), talaltra semplicemente da un cenno, un gesto o un vezzo, che improvvisamente ce lo rivelano un altro (specie in quelli femminili).