L’AMORE AMARO di “DEDALO E ICARO”

C’è un’infinita poesia, fra le pieghe delle piccole cose, capace di pizzicare corde in grado di risuonare della tonalità sorda e densa della verità. È lì che la prosaicità del quotidiano si scioglie in commozione. È qui che la giovane compagnia Eco di Fondo, da quasi 10 anni, ormai, danza, con passo leggero, al limitare fra lirismo, sensibilizzazione e narrazione.

È stato così anche per “Dedalo e Icaro”, drammaturgia di Tindaro Granata, regia di Giacomo Ferraù e Francesco Frongia, in scena al Teatro Elfo Puccini di Milano fino al 3 febbraio 2019.

Intanto diciamo della primigenia vocazione degli Eco di Fondo: il cosiddetto teatro ragazzi come scelta forte e consapevole. Sostenuti dalla convinzione che possa e debba esserci un altro modo, per approcciare gli adolescenti al teatro, che non sia quello della deportazione forzata alle metinées per le scuole, Giacomo Ferraù, Giulia Viana e Libero Stelluti da sempre hanno affrontato tematiche dalla valenza sociale, senza per questo rinunciare a farne pastoia appetibile per le generazioni più giovani. Predigerita quanto basta e dal sapore delicato ma emozionale, è in grado di innescare, a ripensarci, il proustiano effetto madeleine. E colpisce nel segno la loro capacità di toccare le corde del cuore, così che quel che si è visto in scena non rischi di restare solo l’anonima proiezione sul fondale animato di una mattinata passata lontana dai banchi di scuola, ma diventi patrimonio emozionale, ergo, acquisito.

Così dopo il tema dell’eutanasia – e della dedizione di un amore che può resistere per tutta la vita, nonostante tutto –, in “Orfeo ed Euridice”, e dopo la tematica del bullismo e della discriminazione legati all’identità sessuale ne “La Sirenetta”, solo per citare i due spettacoli più dichiaratamente pensati per un pubblico anche adulto, ecco questo “Dedalo e Icaro” a zummare sull’autismo.

Già, perché se ci sono tematiche più di moda – anche solo perché tristemente portate alla ribalta da fatti di cronaca che non possono non suscitare reazioni -, poi ci sono i drammi silenziosi. Costanti e logoranti con l’inalienabile attività scarnificante della gutta supra lapidem, coinvolgono e sconquassano intere famiglie – e hai voglia di sdrammatizzare: hanno portate da cui, comunque, non se ne esce indenni.

Poi, certo, sì: la poetica degli Eco di Fondo trasfigura – e, in parte, edulcora – come farebbero gli occhi ipertrofici di un ragazzino, che non voglia rassegnarsi a distogliere lo sguardo per non essere in qualche modo costretto ad ammetterne e, dunque, a legittimarne l’esistenza. E forse un pizzico di sentimentalismo, a tratti, è il solo – minuscolo – peccato venale in cui rischiano d’indugiare.

A parte questo, la storia è quella di una vita familiare spesa attorno a Giacomino, il protagonista autisticoi nomi dei personaggi sono gli stessi degli attori e Giacomo Ferraù, qui, dà prova di una sbalorditiva capacità attorale, nel suo ruolo ossessivo, eppure dinamico e credibilissimo, di un ragazzino autistico: coi suoi movimenti ripetuti e compulsivi, i suoni gutturali, l’incomunicabilità introflessa e poi, però, gli scoppi d’ira o di paura, i repentini sbalzi d’umore e quello struggente bisogno di contatto/contenimento, retaggio di un’infanzia irrimediabilmente cristallizzata. Alter ego di questo Icaro – l’allusione è alle alette di pollo, cibo transazionale e simbolico della ricerca di un contatto da parte dei genitori -, come nel mito, è il padre Dedalo. A interpretarlo, Vincenzo Giordano, giusto non solo per il suo physique du rôle. Figura prestante, che allude alla statuaria greca sì – greco si rivela anche in quella pacatezza e quasi imperturbabilità olimpica -, a tratti si colora, invece, dell’esplosività delle divinità greche, che, in fondo, erano solo uomini amplificati, quantitativamente superiori a noi, ma non qualitativamente diversi; molto più prosaicamente, sembra farsi carico di un senso di dolore e di uno sconforto alla Qohelet, ma che, come in lui, si ammantano della portata tragica della responsabilità e ribellione e strenua ricerca di una qualche soluzione, senza mai cedere del tutto le armi. “Fai come papà – sussurra al figlio –: devi volare ma non troppo in alto, se no ti bruci, e nemmeno troppo in basso”, lo sprona.

Sorprendentemente, è lui il perno della famiglia – eh, le nuove famiglie, tema trattato da Tindaro Granata già in “Geppetto e Geppetto” -: è lui a relazionarsi con la psicologa, lui che tiene il bandolo delle mille attività con cui si cerca di stimolare il ragazzo; lui a farsi carico delle fragilità della moglie (Giulia Viana credibile ed efficace nel doppio ruolo della madre, quasi friabile, e, al contrario, dell’assertiva psicologa) e a interfacciarsi con l’altro figlio adolescente (Libero Stelluti, ottimamente impegnato anche in correlati ruoli minori, di cui si dice che è figlio nato non per caso, com’era stato per il fratello, ma per la paura dei genitori di lasciare Giacomo; ergo: nato per prendersi cura del fratello – detto, quasi in un soffio, ma non meno terribile).

Riecheggia un po’ di quello “Zigulì. La mia vita dolce amara con un figlio disabile” di Massimiliano Verga (da cui fu tratto omonimo spettacolo, qualche anno fa), in questa drammaturgia di Tindaro Granata: anche se spesso edulcorati, neppure qui non si fanno sconti alla fatica, alla disperazione, allo sconforto, alla rabbia, sì, ma anche alla necessità di non lasciarsi cadere le bracciaper usare un’altra espressione biblica. Sbalorditiva, in tal senso, l’iniziazione, da parte del padre, del figlio disabile al sesso, presso una prostituta – tematica tanto scabrosa e quasi indicibile, quella della sessualità e del diritto di una vita sessuale nei disabili, quanto probabilmente efficace gancio nel tentare un contatto con un pubblico di adolescenti. Edificante la spiegazione che Vincenzo ne dà in uno di quegli a parte, che fanno più Pirandello che Shakespeare, in questa tematica dal sapore smaccatamente novecentesco. “Non era la voglia di quella roba là – racconta, ripensando ai suoi primi turbamenti adolescenziali –, era la voglia di prendere in mano il mondo..”, sfuma, quasi reticente, di fronte ad un augurio che sa che solo in parte potrà essere realizzato dal figlio.

Così, mentre si muovono sul ritmo delle sconnessioni ed interferenze di un transistor questa l’idea attraverso cui la regia prova ad accompagnarci nei meandri di sinapsi che pingano in modo diverso dal nostro -, i personaggi non escono mai dalla loro isola ghiacciata – l’allusività, forse, è alla temperatura emozionale di Giacomino –, (viziosamente) circolare, bianchissima entro cui provare a disegnare il proprio angelo della neve con ali grandi per provare a innalzarsi almeno un po’ dal labirinto seppure colorato di Giacomino, che vede suoni e sente immagini, di una dimensione da astronauta, che noi non potremo mai captare.