La bi(g)sbetica… pop

Ne “La bi(g)sbetica domata” – già quel titolo: che strizza l’occhio al “The Big Brother” – il regista Francesco Leschiera, ce lo fa capire subito: che non intende offrire una più o meno credibile riproposizione del testo shakespereano, ma che, invece, gl’ interessa sperimentare, mettendo a reagire insieme elementi differenti per vedere dove vadano a parare.

la big 5

Già dalla cornice. Già, perché c’è una cornice – sottolineata da chiassosi led tubolari di luce bianchissima – un poco più piccola dell’inquadratura del palco e, prospiciente in avanti – fra questa e l’ultimissima parte della ribalta: quasi già nel parterre -, una sedia che sa tanto di ‘confessionale’. Poi, rilasciando lo sguardo sul fondo, una serie di accessori color latte: cubi che spesso s’illuminano, sgabelli di design da bar della Milano da bere, una zona bar, non a caso, sulla destra con vicino un frigorifero brandizzato – l’immagine è quella di una nota birra -, e, sulla sinistra, una porta da cui, ad uno ad uno, entrano i concorrenti di questa improbabile sfida. Ma c’è un altro piano – ancora più infondo -: ed è lì che si concretizzano, in un plastico gruppo scultoreo alla Dinasty, i cinque personaggi. Introdotti da una rimbombante musica pop – prepotentemente succedanea dell’area classica d’ouverture – ed una graffiante luce rossa – che suona subito come una dichiarazione d’intenti -, ci si mostrano di lontano per poi entrare, ad uno ad uno, come introiettati attraverso la bocca della porta sulla sinistra: Lucenzio/Luigi Maria Rausa, per primo, poi Bianca/Valentina Pescetto e, ultimo di questo primo trittico, Ortensio/Alessandro Macchi – una sequenza che, mutatis mutandis, verrà riproposta poi con l’ingresso di Petruccio/Marco Marzaioli e Caterina/Ermelinda çakalli. Stesso copione per tutti: ciascuno, entrando, ha un momento come di sbigottimento, si guarda attorno incuriosito, si avvicina al frigo per prendere una birra e solo dopo, se del caso, entra in relazione con gli ospiti già presenti: riproponendo il rituale della location televisiva del “Grande Fratello”. Ciascuno, poi, a turno, si ritaglia un momento di libertà espressiva nel confessionale. E’ in questi a parte con funzione di coro, che i vari protagonisti informano il pubblico; lo mettono al corrente sull’antefatto – la vicenda delle due sorelle: l’una, Bianca, apparentemente accomodante e sottomessa, potrà andar in sposa solo dopo le nozze della sorella Caterina, spigolosa e bisbetica e, proprio per questo, di non così facile sistemazione -, gli svelano le proprie intenzioni – sia Lucenzio che Ortensio, infatti, ciascuno per conto proprio, rivelano di voler arrivare al cuore della giovane Bianca, fingendosene precettore – o sciolgono lo spettro della maschera indossata nella casa – è il caso di Caterina, che, nonostante si ponga come una gatta grifagna, da subito qui confessa il suo sentimento per Petruccio o quello dello stesso giovane, che torna a ribadirlo a cuor di pubblico, quel progetto, orchestrato per sposare la pur bisbetica, ma facoltosa fanciulla, recando buon gioco agli altri due, spasimanti della sorella di lei.

trittico
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Termina qui, il meccanismo reality: una volta espletato l’onere dell’introduzione dei personaggi e dello svolgimento del proemio, infatti, l’azione si gioca direttamente nello spazio intermedio del palcoscenico pieno. Siamo tornati a Shakespeare, si potrebbe pensare; ma la verità è che, nonostante gli ammiccamenti al contemporaneo pop televisivo, da Shakespeare non ci siamo mai allontanati. Ed alcune precise scelte registiche ce lo segnalano in modo inequivocabile: la lingua, anzitutto, che non ha mai smesso di risuonare con quella cadenza vagamente desueta tipica di una poetica di oltre quattro secoli fa. L’atmosfera farsesca da molto rumore per nulla, che il regista sa rendere attraverso sincretismi vari: ad esempio, mantenendo comunque in scena le coppie non coinvolte, semplicemente cristallizzandole in gruppi scultorei – issati su cubi-piedistalli, quasi a disconnetterli dalla contiguità col suolo e, dunque, dalla realtà dell’azione scenica -, quasi fossero le marmoree presenze di un giardino in stile inglese. E, ancora, quell’andamento divertito da commedia, che Leschiera restituisce – amplificato -, nelle scene dei due matrimoni – tramite l’escamotage della comica /movimenti accelerati e spezzettati, complice anche il pulsare delle luci stroboscopiche – così pure come in quel darsele di santa ragione con la chitarrina, citazione della viola, strumento di cui Ortensio era precettore, nell’originale shakespeariano. E poi tutto arriva lì: all’ ugualmente shakespeariano indurre il pubblico a tranne le conseguenze.

dittico
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Chi è bisbetico? Caterina – rude di modi, all’inizio, ma fin da subito di sentimento schietto e sincero – o quel marito che una volta soggiogatala con un’affetta tolleranza di facciata, si rivela nella sostanza più duro di lei? E chi, la bimba buona di papà? Bianca col suo modo garbato – salvo poi sfoderare un caratterino non poco determinato e sprezzante – o, in fondo la piccola Katy, come la chiama, imbonendola, Petruccio in fase di corteggiamento? Ancora: chi deve difendersi da chi? Gli uomini – da queste donne bisbetiche – o non, in fondo, proprio loro: queste donne-oggetto di scambio – o di desiderio? E cosa vogliono, allora, i personaggi? Dove, il senso di tutto questo teatrino? La risposta, Leschiera l’affida alla bisbetica – il solo personaggio autentico, nonostante tutto -, che, nel conflagrare di quel brindisi – metateatrale, all’insegna dell’ “I feel good” – è la sola che sa spogliarsi della maschera ed ammettere: “Voglio andare a casa… Ammazzatevi di finzione… Fatevi domare! Io voglio andare a casa…”.

Quasi che la sottomissione non stia nell’inspiegabile cambiamento del suo personaggio, quanto – al contrario – proprio nel non volersi arrendere alla necessità di un cambiamento evolutivo e di conciliazione.

Al Tertulliano: ancora fino a domenica, questo gruppo di attori generosi ed affiatati, diretti nel divertito gioco scenico di Leschiera.

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