Ionesco, eutanasia e nichilismo: la struggente poesia di ciò che finisce

C’è una nota di struggente poesia in quel che finisce: eccolo il fil rouge, che sottile scorre in tre degli spettacoli in scena nello scorso weekend a Milano.

Le sedie di Ionesco, Teatro Carcano dal 15 al 20 marzo 2020

Farsa tragica, così fu definita dallo stesso autore, la regia di Valerio Binasco le regala un guizzo di surreale splendore; e lo spettatore resta lì: inchiodato alla leggera tragicità di quel nulla, che gli si dipana davanti agli occhi. Complice una scenografia (di Nicolas Bovey, che firma pure le curatissime luci) vertiginosamente sbilanciata verso il proscenio e quei muri altissimi e incrostati dall’incuria di un tempo, che sembra sfidare la normale aspettativa di vita dell’essere umano, più che di un the day after, la tonalità emotiva è, fin da subito, quella della catastrofe imminente. E loro, il vecchio e la vecchia, così nelle didascalie del copione, paiono insperati superstiti. Scampati, chissà come, per un tempo degno di biblici patriarchi, hanno riascquistato la scanzonata leggerezza dei bambini, pur intrappolata in corpi piegati dal tempo. E sono inarrivabili, Federica Fracassi e Michele Di Mauro, nella fisicità mimica, ma anche nel colore opaco e tremulo della voce e in quei tempi, stonature e contro tempi e negli improvvisi salti – di senso, di umore e d’intenzione -, che spesso segnano i percorsi non sempre lineari dei vecchi, combattuti fra il già e il non ancora.

Così, se l’incipit è in levare, con la leggerezza di Filemone e Bauci, si dipanano via via le emozioni più svariate. È l’accorata e timida ambizione di Semiramide – la moglie, di cui il marito non smette di pronunciare il nome – nei confronti di quello sposo, che avrebbe potuto arrivare a ben più alti riconoscimenti, se soltanto lo avesse voluto davvero, e il quieto accontentarsi di lui, che continua a schernirsi di come, in fondo, sia andata bene così… È il gioco amoroso dei due: lei, bimba indifesa e talvolta capricciosa, nel chiedergli di raccontarle per l’ennesima volta la stessa storia, e lui, che la protegge come fosse una tenera colombella… È l’ossimoro fra il suo comandarla, durante i preparativi – e poi nell’accoglienza di quegli ospiti inesistenti – quasi fosse sua sottoposta, e poi invece il riparare in lei: compagna, moglie e madre, in un gioco che, dall’assurdo, cortocircuita con la realtà, che, in effetti, non è mai lineare e univoca. È l’aggrovigliarsi di quei tutti, chiamati ad ascoltare il proclama frutto di una vita intera di riflessione, ma che vediamo solo attraverso l’ingombro di sedie scompagnate e vuote – come le loro storie, apprese, solo per metà, dall’ interloquire dei due con queste presenze assenti.

Un po’ Macbeth, in una versione edulcorata e sentimentale, rubando il termine agli sproloqui del vecchio, un po’ Aspettando Godot – ma, in fondo, un po’ anche Amleto, in quell’evocazione della madre morta, giacente in un canale con in mano un mazzolino di mughetti: un omaggio ad Ofelia, ma, chissà, forse anche alla madre dell’autore, francese come quel fiore simbolo, in oltralpe, del primaverile ritorno alla felicità. Alla fine però arriva, il famoso oratore, a cui il vecchio avrebbe delegato il compito di annunciare il suo proclama. Se nella partitura di Ionesco, i due si suicideranno prima che lui possa parlare, rivelando solo allora quel suo essere sordomuto, qui Binasco lo rappresenta attraverso una luce rossa, che scorre fra palco e platea, quasi a coinvolgere davvero tutti in questo muto messaggio; solo dopo verrà consumato quel gesto, in fondo, più che di resa, di libera autodeterminazione. E, nel mentre, lo sciorinarsi di quelle dinamiche e considerazioni, che inverano e rendono autentico il non senso del teatro di Ionesco.

Moltissimo passa attraverso gli occhi di lui, Gilberto Govi redivivo, con quel suo affabulante farfugliare e quello scanzonato modo di schernirsi e perdersi. Si trasfigura, l’ottimo Mauro di Michele, in quegli scoppi improvvisi di memoria dalla nota nostalgica e struggente. Cameo di rara emozionalità è l’evocazione della madre e qual senso di colpa, nonostante tutto, non ancora sopito. Al ricorrente grido di “Voglio la mia mamma”, si consuma la metamorfosi di lui: da marito a figlio, rivestendo di splendore lei, una Federica Fracassi in stato di grazia, arrendevole e superba in quella simil trasfigurazione, che solo una maternità sia pure surrogata sa donare.

Uno spettacolo mesmerizzante – preziosismo carpito al pubblico -, frutto di una compagine di altissimo livello, dove alle intuizioni della regia, tien dietro una squadra di ottimi professionisti; eppure probabilmente mai avrebbe potuto raggiungere questi livelli, senza la generosità spiazzante e la solidissima capacità attorae di Federica Fracassi e Michele di Mauro.

Orfeo ed Euridice, a Campo Teatrale dal 16 al 20 marzo 2022

Medesima impalpabile – e, qui, anche commossa – liricità serpeggia nel delicatissimo, ma non per questo meno incisivo, spettacolo degli Eco di Fondo.

Pur con tutto il garbo, che ne avrebbe contraddistinto l’intera produzione, già da questa drammaturgia del 2014, l’allora giovanissima compagnia metteva a fuoco quella che sarebbe stata altra sua cifra: trattare tematiche di rilevanza sociale, senza perdere lo sguardo trasparente e il tocco delicato di chi racconta senza giudizio, ma non per questo senza un’opinione. Cosa rara: specie in un éntourage falsamente persuaso del primato della domanda sul sia pur personalissimo tentativo di azzardarne una risposta, condicio sine qua non per l’innescarsi di un confronto e dialogo autentici.

Il tema è quello controverso e delicatissimo dell’eutanasia; eppure nessun proclama nelle loro parole appassionate, discretamente allusive alla vicenda di Eluana Englaro – rimasta in stato vegetativo per 17 anni a seguito di un’incidente automobilistico, esattamente come la protagonista Euridice.

Nessun proclama, dicevamo, ma solo uno sguardo narrante. A prevalere non è tanto la pur presente e ben argomentata costruzione contro l’accanimento terapeutico in nome del diritto ad una vita dignitosa e all’autodeterminazione, quanto qualcosa di più basico e fondante. È l’inviolabilità della promessa e la sacralità della parola data: nonostante tutto e pur ad onta del proprio sentire. E allora sì, che acquista altro spessore quel naturale volgere nel mito, quando la dimensione umana viene soverchiata…

Altra intuitio felix, in uno spettacolo che certo non lesina rovinosi affondi nei più vorticosi degli Stige, è la doverosa, oserei dire, o quanto meno funzionale mescolanza di registri. Se la storia dei due è raccontata nell’alternanza fra azione mimata (con didascalie recitate ad esplicitare i primi turbamenti, dubbi e timori, che spesso teneramente accompagnano gli incerti passi del farsi coppia) e azioni sceniche vere e proprie (sia pur quasi sempre segnate da un’asincronicità, che profuma dello struggimento de “L’avventura di due sposi” di Italo Calvino), non manca poi la nota comico-caricaturale di un Caronte dall’accento siculo. Giocosamente atto a smorzare i toni drammatici della vicenda, gli si perdona volentieri il rivelarsi più cliché che personaggio – cadenza e gestualità ancora lontane dalla parlata e da quei toni quasi rallentati dell’uomo del Sud anche quando ha fretta.

Così, in un incrocio chiasmatico – intelligentemente funzionale anche all’opportunità di un allestimento snello e di facile trasportabilità -, si giocano le vicende di Giulia e Giacomo (i nomi di battesimo sono gli stessi degli interpreti). Nella regia di Cesar Brie, l’una dimensione allude al privato, l’altra alla vicenda pubblica; nel mezzo, l’umanissimo dramma di chi si trova invischiato in un limbo, potentemente reso, ad esempio, nell’immagine di Giulia già Euridice. “Passione, commozione e amore sono stracci, che mi cucite addosso…”. Eccolo, il muto grido di lei, ormai impietosa marionetta nelle pur amorevoli mani di un accorato pietosissimo Giacomo Orfeo; e lui, suo malgrado, avvinto nell’estenuante e strenuo obbligo legale di tradurla verso una vita, da cui lei stessa lo aveva pregato di lasciarla andar via…

Generosissimi e bravi, Giulia Viana e Giacomo Ferraù, attori in scena, in quello scivolare fra la scanzonata umanissima storia d’amore di due ragazzi e l’inaspettato spessore universale – e, in questo mitico – di una vita, che all’improvviso ha mostrato loro il terribile sguardo di Medusa. Pietrificati, ciascuno a proprio modo, in una maschera, che ne ha cristallizzato le esistenze, i personaggi incanutiscono e si sfibrano in quell’afono, ma ostinato lottare.

Fuori le ragioni di chi crede di aver ragione – i medici, i giudici, le opposte fazioni pro o contro l’eutanasia -; nell’occhio della Gorgone loro, in una cura struggente e che pare non sentire ragioni e poi in un epilogo, voluto e non voluto, promesso, perseguito e ottenuto – nonostante tutto e a prezzo della propria stessa ragion d’essere. E mentre in platea a più riprese il pubblico viene sopraffatto dalla commozione, Giulia Viana e Giacomo Ferraù nemmeno per un istante cedono all’immenso magone, che stanno agitando.

Non lo so come sia possibile schermarsi così; eppure quel che so è che il vero attore – dramatis per-sona nell’accezione etimologica del termine – non è meno di questo. Convincente anche la drammaturgia, che dice senza ostentare e pur lasciando intuire, a chi ha orecchie per intendere, che si tratta di una partitura nata da uno studio approfondito delle questioni mediche ed etiche, che si agitano attorno alla problematica.

Con tanto amore, Mario, al Teatro della Contraddizione dal 17 al 20 marzo 2022

È una malinconia dalla nota amara e quasi beffarda, quella che segna la tonalità emotiva del monologo di Paola Tintinelli – che, non a caso, veste i panni di un personaggio un po’ buffo e un po’ surreale come solo nel mondo del circo è dato vederne. Un pagliaccio – da paglia per via di quella capigliatura di un biondo “stopposo”, proprio come quella della Tintinelli, pur corvini, in scena -, ma non di quelli che fanno ridere in maniera crassa; la risata, che pure non manca, ha piuttosto il sapore pirandelliano, che nasce dallo stridore fra significato e significante.

Uno spettacolo in minore e senza parole, questo “Con tanto amore, Mario”, che già dal titolo sa di malinconia e di commiato. Gesso alla mano a delimitar lo spazio scenico, tutto si svolge in quel non luogo della finzione, in cui solo il patto drammaturgico consente di vedere ciò che non c’è. Appositamente disegnato e addobbato con cura dallo stralunato personaggio in scena, dal suo baule-forziere tira fuori gli oggetti più improbabili, questo novello la Linea di Cavandoli. E lo fa con un candore e un’ironia beffarda dall’effetto esilarante e, a tratti, disarmante.

Quel che succede nel suo piccolo mondo antico, è l’ostinato ripetersi di giorni tutti uguali. La l’ossessiva monotonia dell’esistenza di un postino d’antan, diviso fra un lavoro che fantozzianamente non ama e una vita privata consumata nella più desolata e desolante delle solitudini. Eppure in lui non c’è nulla d’irriverente o di grottesco; solo la grazia lunare di uno Charlot in bicicletta, che almeno ci prova a stare al passo coi modi e le mode degli altri. Così, neppure sul suo uscio manca il consueto nano da giardino e anche le sue pur solinghe festività sono allietate da pandoro, spumante, albero di Natale e stelline scintillanti, a salutare il Nuovo Anno, il tutto… in formato mignon!

Fa sorridere, quel suo sciorinare oggetti in versione single; ma poi fa pure riflettere, pensando a quanti, ormai, viviamo in siffatte gabbie di libertà, intrappolati fra un evento e un finger food, che certo non ci saziano, né placano mai davvero la nostra fame di relazioni.

Ed anche questo aspetto è raccontato bene in quei regali “particolari”, che il nostro (anti)eroe si trova a ricevere e a dover indossare – e che parlano di sesso e relazioni, bambini e, chissà, forse il normale desiderio di una famiglia, travolto dalle sempre più allarmati voci del meteo.

Fors’è un po’ questo, il limite di “Con tanto amore, Mario”: forse manca quel quid capace di dar senso a una svolta – come se a questa pars construens, drammaturgicamente parlando, non corrispondesse una pars realmente denstruens e non solo di smontaggio. O, al contrario, è proprio questo l’intento: il voler dire dell’estenuante dissiparsi di un’esistenza, condannata all’agonia di una morte annunciata senza un reale perché.

Quel che è certo è la reale idoneità della Tintinelli per questo ruolo, che lei stessa si crea e si cuce addosso, capace di mostrare tutta la sua capacità mimica e la grazia stralunata di un personaggio dagli accenti felliniani.