Il Teatro fra “silenzio-assenzio” e la sola compresenza possibile

Ce lo insegna la vulgata – vox populi, vox Dei… –: “Chi tace, acconsente”.
Silenzio-assenso è la formula sintetica per dirlo.

La realtà filtrata dai social

Scivolando nella sottile ipnosi da social (è dello scorso 30 aprile l’articolo di Raffaella Menichini per La Repubblica, a proposito dell’impennata del tempo trascorso su queste piattaforme da parte di almeno metà dei suoi abituali utenti, ndr), ci si arrende facilmente ad una visione della realtà sempre più onirica, soporifera e svaporata. Sono loro, i Rosa Elefanti, i nuovi Virgilio o Caronte, a traghettarci attraverso un mondo dai tratti sempre più evanescenti e dimentichi della caparbia solidità del reale?

E poi c’è il Teatro

Ce la farà a resistere anche stavolta, quest’antichissima arte, sul punto di morte per quattromila anni, ma che, come ha ben scritto John Steinbeck,  non ha mai capitolato?

Primo round: presenzialisti versus meditativi

Il primo round ha visto opporsi i fautori di una resistenza nella testimonianza ai rivendicatori di un doveroso silenzio. Ferma restando la condivisa priorità di un doveroso rispetto per le vittime di questa pandemia e per i loro congiunti, ciascuno ha avuto i suoi buoni argomenti da opporre. Pur consapevoli del rischioso effetto boumerang di un’eventuale sovraesposizione, i presenzialisti hanno reputato che fermarsi potesse apparire come una resa. Non tanto scivolare nell’oblio, il timore era piuttosto quello di far sentire abbandonati a se stessi gli spettatori fedeli, da sempre loro affezionati sostenitori nelle sale dei teatri. Si erano lasciati ammaliare dalle loro storie ed emozioni, sì, ma anche dai pensieri, spunti di riflessione o germi con cui confrontare le proprie visioni del mondo. Ed ora che la corazzata lanciava il suo panico mayday potevano, questi pur involontari capitani, dismettere i loro gradi e ritirarsi in chissà quali eremitiche isole meditative? Non era, forse, più il compito del comparto organizzativo-strategico, quello di raccogliersi per studiare modi capaci di fare i conti con i nuovi limiti imposti dalla situazione? Frattanto gli altri, i puristi del “Se non è dal vivo, non è teatro”, forti della granitica incontrovertibilità dell’assioma, si sentivano già di per sé in un’invulnerabile botte di ferro…

Secondo round: la voce necessaria e cosa si può dire

Poi il secondo round. Col passar dei giorni, è stato sempre più evidente intanto come l’allarme non riguardasse più questa categoria soltanto – e, soprattutto, che il silenzio andasse in qualche modo violato. Alcuni lo hanno fatto per rivendicazione (dei loro spesso ancor inesistenti diritti sindacali) o per protesta (dell’insostenibilità di questo o quel malcostume condiviso), altri per testimonianza, resistenza o ri-esistenza.

Il minimo comun denominatore? A torto o a ragione, volenti o nolenti, moltissime di queste voci, appelli, testimonianze, repliche o prese di posizione sono passati attraverso il web, in generale, e i social, in particolare.
Del resto, se il nostro era già prima un mondo virtualmente globalizzato, in questo lockdown lo è necessariamente diventato ancor di più – e in modo anche virtuoso, talvolta.

I nodi gordiani

Cosa ci ha mostrato questa social-congestione? Intanto, ovviamente, che ci sarebbe stata – anche se, la buona notizia è che c’è sempre l’opzione B: spegnere tutto e, per quanto al momento la scelta sia limitata, dedicarsi ad altre attività off line. Ma, soprattutto, complice certo la tensione accumulata in questi giorni di allarme sanitario e socio-economico, pare non esista più un reale diritto di espressione.

Iperconnessione
L’intolleranza della sé dicente democrazia

Scorrendo le bacheche Facebook, ad esempio, si ha la sensazione di attraversare micro contee o viscontadi, in cui un signore o una cerchia di se dicenti pares cerimoniosamente si rimbalzano le stesse opinioni e si prodigano in plateali inclini. Tolleranza zero per le voci fuori dal coro. A loro non resta che rassegnarsi ad una sorta di alternativo eremitaggio, conseguenza dell’esser messe al bando (da cui la pratica del bannare) – o, al massimo, di rispolverare il pirandelliano berretto a sonagli e vedere se, almeno così, sarà concesso loro di poter dire la propria, pur nella difficoltà di superare il fragore delle risa dei cortigiani.

Silenzio-assenzio

È così che viene sancito il silenzio-assenzio. Pasciuti dalla non belligeranza dell’algoritmo social – già prima ci mostrava solo i post di chi più la pensava come noi -, ora siamo a tal punto vezzeggiati da vederci inventar per noi stanze, in cui elitariamente incontrarsi, in privato, coi più uguali fra gli uguali a noi.

Dumbo e gli elefanti rosa: una vicenda Freudiana
I “Rosa Elefanti” di “Fantasia” di Walt Disney

Cosa resta del voltairiano: “Non condivido la tua idea, ma darei la vita, perché tu la possa esprimere”?
Poco conta se sia stato lui (il primo) a dirlo. Fa comunque meraviglia viaggiare in simile contee, soprattutto quando si attraversano i villaggi di quegli artisti, che si concepiscono non solo come dei meri intrattenitori (pur con tutto il rispetto per chi giustamente desidera ricoprire questa funzione sociale), ma come promotori e attivatori di pensiero, ergo intellettuali e, in un certo immaginario, ideali paladini della libertà di pensiero ed espressione. Rattrista constatare che ancora esistono verdi fatine (non più forse alcooliche, ma comunque non meno narcolettiche) in grado di rapire nobili menti, incatenandole a dissertazioni amletiche come se davvero esistesse un’alternativa possibile. Non mi riferisco alle pur legittime – benché, a mio modesto parere, solo in parte condivisibili – rivendicazioni sindacali della categoria [tipo questa creata da un collettivo di attori e disponibile sulla piattaforma Collettiva della GCIL) o di quelle messe in campo da singoli compagnie (vedi, sempre a tema “Essere o Non Essere” quest’altra di Teatro dei Borgia); quanto all’inspiegabile resistenza a riconoscere un innegabile principio di realtà.

Distanziamento sociale chiama contatto (solo) virtuale: altro modo, per ora, non pare possibile

Negata la compresenza dell’hic-et-nunc nella contingenza del cronotopo spazio-temporale, in cui attualmente ci troviamo a galleggiare, chissà che non si possa – frattanto… -, acchiappare almeno l’ascissa x (tempo) per poi inventarsi un nuovo modo con cui sostanziare l’ordinata y (spazio). Così, se non sarà l’odore dei corpi, ci auguriamo possa essere almeno la carezza degli sguardi a dare consistenza a nuove forme di contemporaneità e coesistenza virtuale.
In parte ce lo hanno mostrato già i flash-mob e, prima ancora, le tifoserie calcistiche pronte a esplodere all’unisono nelle mille piazze del territorio. Persone diverse e in luoghi diversi possono riconoscersi parte di una medesima comunità attraverso un rituale condiviso nella sincronicità di uno stesso tempo. Più che il semplice guardare in streaming uno spettacolo girato in un tempo in cui noi non c’eravamo – e sentircene comunque parte. Si parla di piattaforme alla Netflix (e, forse, meno, delle finanze e della propensione alla spesa di quel che resterà da un pubblico, decimato, forse, anche dalla disabitudine, oltre che dal timor di contagio e dalla recessione, che probabilmente seguirà a tutto questo) – e allora toccherà disciplinarne l’uso, ottimizzandone le rispettive accessibilità e  fruibilità da parte di tutti.

Oppure potrebbero essere presidi meno sofisticati e alla portata di “consumatori” meno pretenziosi. Non siamo comunque andati, fino a due mesi fa, in teatri diversi con aspettative necessariamente proporzionate ai mezzi di produzione di cui immaginavamo disponessero? Non siamo stati pronti anche a condizioni non ottimali – il caldo arroventato dei festival, la scomodità delle sedute o la visuale non sempre eccellente degli spazi più off -, quando abbiamo scelto di recarci in eventi dalla logistica precaria? Di certo non erano i comfort a muoverci; piuttosto un’umanissima curiositas e il desiderio di condividere la visione.

“Un uomo lo attraversa lo spazio e un altro lo osserva: è sufficiente questo a dare inizio a un’azione teatrale” ha scritto Peter Brooks. E perché mai, ora, pensiamo di non poter tollerare la mancanza di una condivisione, che non sia fisica? Le nuove tecnologie ci consentono di praticarne una forma nuova in quella sincronicità, a suo modo compresente e interattiva.
Chissà che, svincolandoci dalla tirannide  dell’hic, alla fine il nunc non ci sveli possibilità inaspettate e replicabili anche in futuro per implementare il pubblico di chi, per le più svariate ragioni, non possa assistere direttamente a uno spettacolo dal vivo.