“Il Gabbiano” della Brook fra sogni e bisogni

In scena per soli pochi giorni, dal 28 novembre al 3 dicembre 2023, “Seagull dreams. I sogni di un gabbiano” ha portato sul palcoscenico del Teatro Elfo Puccini di Milano una nuova variazione del celeberrimo cechoviano. Alla regia Irina Brook, che dall’illustre genitore eredita non solo il cognome, ma soprattutto un modus vivendi al servizio di quell’arte tanto intangibile e preziosa, quanto dispotica e totalizzante, che è il Teatro.

Un ‘gabbiano’ a modo mio

È inevitabile, per chi faccia teatro, confrontarsi, prima o poi, con la sacra diade Shakespeare/Cechov. E se il primo è più spesso approccio di un’età giovanile – è appassionato e roboante, altisonante, a tratti, e sprezzante, ma poi anche tenero, intimo e disperato, capace d’indagare l’umano attraverso uno sguardo in grado di non distogliersi da nulla -, il secondo è approdo di un’età – o. forse, di una temperie… – meno “eroica”. Più intimistico e struggente, sembra insinuarsi fra le pieghe di una realtà, che non di rado gioca a nascondersi. Si schernisce, quasi, fra detto e non detto, leggerezza e tragedia, con la stessa carezzevole impalpabilità di quell’ultimo brindisi, con cui lo stesso Cechov, lungamente malato, salutò al fin la vita.

©Rosellina Garbo

Ed è esattamente questa stessa tonalità emozionale a vagheggiare nelle quasi due ore fitte fitte portate in scena dalla Brook. Fedele, nel testo e nella trama – eccezion fatta per alcune indulgenze, di senso, a linguaggi e tecnologie dell’oggi -, questa messa in scena usa in modo sapiente il già ricco ordito, impreziosendolo con attualizzazioni e un diverso montaggio della cronologia degli eventi. Ne risulta una luce nuova gettata su quanto già si annidava nell’originale cechoviano. Soprattutto, riesce a mettere a fuoco in maniera quanto mai lucida ed efficace i punti nodali, su cui sceglie di fissare l’attenzione. Da lì, smonta e rimonta Cechov, giocando fra teatro e metateatro, in un intreccio, in cui, a tratti, sembrano quasi svanire i limiti dell’uno e dell’altro – si fatica a distinguere se a parlare sia l’Arkadina o l’attrice, che ne interpreta il ruolo o, ancora, la donna Pamela Villoresi con la sua vita spesa al servizio del teatro. Ma che importa? Non è forse esattamente questo, il senso, che s’intende veicolare? Tutto si confonde e pare quasi che l’attore, vocato, non abbia più una dimensione propria, al di fuori del teatro.

Visione Teatro: i padri (filiazione)

Colpiscono, i tagli della drammaturgia originale. Lasciando in secondo piano le questioni più prettamente sentimentali (il triangolo amoroso Arkàdina/Trigòrin/Nina, ad esempio, è ridotto a poco più di una relazione virtuale via zoom, salvo poi raccontarcene, in un paio di quasi reticenti battute, il tragico epilogo), alcune tematiche acquisiscono invece un’importanza preponderante. Così in Kostia sembrano riverberare i dubbi di Amleto sul senso del suo destino e sul suo esserne (o non esserne) all’altezza – il regno, nell’uno, una rivoluzionaria concezione del teatro, nell’altro. Analogo è il rapporto quasi morboso con la madre, che, non diversamente dalla shakespeariana Gertrude, si getta in nuove vivificanti relazioni amorose, severamente giudicate (per differenti ragioni) come inappropriate dai rispettivi rampolli. Una quasi rivendicazione di filiazione fra Shakespeare e Cechov, quindi. Ripresa e ribadita in più di un’occasione la disamina sul teatro vecchio e nuovo, ma soprattutto vero, che fa eco all’analoga dissertazione di Amleto coi teatranti. Come non vedere, in tutto ciò, un rimando alla singolare e rigorosissima visione di Peter Brook e al suo impatto in seno alla concezione del teatro nel ‘900? Come non vedere, in tutto ciò, fors’anche il tributo filiale della Brook all’illustre genitore?

Visione Teatro: i padri (filosofia di vita)

Colpisce anche l’incipit, in cui, ribadito, meta teatralmente, che lo spettacolo sta iniziano, la prima scena ci sbalza già all’epilogo della trama. Kostia è morto. Questo offre uno straordinario volano a sciorinare tutta quella filosofia sul senso della morte, che, chiamando in causa riflessioni dal sapore new age e dallo spessore buddista, ci parla di karma e di prosecuzione, di serena accettazione di quello che altro non è che un ulteriore naturalissimo passaggio dell’esistenza. La morte viene definita come un paio di scarpe strette, sfilate volentieri, quando siano state ben portate – e, ancora, paragonata ad un diploma, che non dovrebbe far scalpore, se alcuni conseguano, prematuramente, già in quarta elementare. Ma, soprattutto – e questo diventa evidente nella chiosa circolare, a ripresa/inveramento dell’epilogo – non c’è giudizio, né (auto) colpevolizzazione alcuna per quella morte, che poi scopriamo essere un suicidio. Ed è lì, che acquista nuova eco quel Karma, che ci invita ad accettare quel che è, poiché, anche Parmenide docebat, non può essere che come dev’essere. Non è, in fondo, anche questo un omaggio a quel padre riformatore non solo dei linguaggi e delle forme, ma, soprattutto del senso di un teatro sperimentale e di ricerca anzi tutto nella sostanza contro la comodità della narrazione borghese?

Visione Teatro: i padri (vocazione totalizzante)

Così, se, quando si parla di vocazione teatrale ne “Il Gabbiano”, è inevitabile pensare all’incontenibile entusiasmo e passione di Nina, la straordinaria operazione che compie, in questo “Seagull Dreams”, la Brook, è mettere in bocca anche all’Arkadina/attrice/Pamela Villoresi quelle parole di sacrificio e dedizione (ché la vocazione, da sola non basta: tocca essere tenaci, anche…). condensandole in quel cammeo finale, che, da solo, varrebbe l’intero spettacolo. È il tragico e struggente monologo di Medea, cavallo di battaglia della grande attrice, chiamata a recitarlo proprio subito dopo la notizia della morte del figlio. In filigrana quel The show must go on, che, per altri aspetti, in fondo, è quanto la vita – e la filosofia sciorinata ce lo ricorda benissimo – ci chiama a fare costantemente, nonostante tutto. Sarebbe stato emotivamente troppo facile chiuderla così – ma di certo non in linea con la leggerezza cechoviana. Merito, dunque, a chi ha scelto di farlo in modo differente: con i nostri, negli occhi degli attori – superba e generosissima la Villoresi, nel giocare a quell’amletico ancheggiare, ondeggiare e scilinguare, per poi precipitare in una Medea da brividi; non da meno Geoffrey Carey, un po’ novello Doc di “Ritorno al Futuro”, a cui, chissà, Irina affida tutta la sospesa, divertita e anticonvenzionale saggezza del padre, sostenitore convinto di un altro modo di fare teatro e fan, soprattutto, di chi abbia il coraggio e la voglia di esprimersi a modo proprio.

Geoffrey Carey e Pamela Villoresi, l’Arkadina e suo fratello Sòrin ©Rosellina Garbo

Bravissimi e generosi anche gli altri attori, in un ininterrotto montaggio e smontaggio – non solo drammaturgico – all’interno di allestimenti dalla verità così accurata, che la pentola portata in tavola fuma realmente. Commovente, il cavallino a dondolo d’antan, scorgibile appena, allungando lo sguardo, a fine replica, nel retro quinte. Immediatamente allude, fra tenerezza e disincanto, al piccolo Kostia intrappolato, forse, in un fanciullesco bisogno di tenerezza, rimasto inappagato, proprio a causa della tirannide di quel teatro, che tutto pretende, compresa la più totale dedizione della madre/attrice. Ed solo appena il caso di far notare che la Brook porta lo stesso nome di battesimo dell’Arkadina – a suggello di vite splendidamente votate a e nutrite di teatro.