“Ferdinando”, la straordinaria contemporaneità della favola di Ruccello

Può, un autore contemporaneo, parlare la lingua e raccontare le dinamiche socio-culturali di un’epoca diversa dalla propria, abitandola come fosse la sua? Ma, soprattutto: se sceglie di farlo, quali mai ne sono le ragioni?

Assistendo a “Ferdinando” di Annibale Ruccello, nella realizzazione di Teatro Segreto – in scena al Teatro Parenti di Milano dal 23 ottobre al 4 novembre 2018 –, sembra di fare un tuffo nel passato. Scene, costumi, dialoghi, lingua e perfino l’impianto luci: tutto ha la rotondità barocca e senza tempo dei presepi della tradizione napoletana o di meravigliose boîtes à surprise dai figurini stereotipati, a cui la regista Nadia Baldi davvero sembra tirare i fili – come le pesanti cime penzolanti in scena alludono – o imprimere vezzosi movimenti rotatori – quasi minuetti da carillon -, per mantenere l’apparente immutabilità circolare di una situazione iniziale, che sembrerebbe destinata a perpetrarsi. Giocati nelle gelose stanze di un’aristocrazia che dei vecchi allori spesso conserva solo la boria, i personaggi si squadernano – almeno nel primo atto – nelle tipizzazioni anti psicologistiche, a cui ci hanno abituato le pièce di Eduardo e, prima ancora, di Scarpetta. Come poi sarebbe stato anche nei film di Totò, a poco a poco la farsa s’inspessisce in umana diabolica tragedia, mostrando, in questa favola ruccelliana, tutto il dark e l’inevitabile portato pedagogico di ogni favola che si rispetti.

Gea Martire è Donna Clotilde

Eppure basta poco per scoprire che Ruccello nacque, a Castellammare di Stabia, nel 1952.

Nonostante una lingua strenuamente arcaica – il napoletano, che, qui, viene sciorinato e sfoggiato con dignità di lingua, appunto, in risentita opposizione all’italiano del conquistatore antiborbonico -, il drammaturgo è nostro contemporaneo. Eppure ci offre uno squarcio, in cui si racconta dell’estremo tentativo di resistere all’imbarbarimento imposto dall’invasore, alla cui superiorità politica certo non corrisponderebbe pari eccellenza culturale: questo il nemmeno tanto velato messaggio di Donna Clotilde, nel cui disprezzo sembra riecheggiare il monito pasoliniano nei confronti di una cultura che, dal secondo dopo guerra fino agli anni ’70 (“Ferdinando” è un testo del 1986, ma la produzione di Ruccello era iniziata una quindicina di anni prima), altro non aveva fatto che snaturare la tradizione contadina, omogeneizzando tutto e tutti in appiattenti slang made in USA. E poi non mancano affondi anche contro la classe aristocratica ormai ridotta al lastrico, ma che continua ad ostentare una superiorità, che certo non le proviene dal censo, la connivenza aristocrazia/clero o la colposa viziosità dei preti, spesso travolti da inconfessabili passioni carnali, quand’anche non pederastia o addirittura pedofilia. Bersaglio principale è l’ipocrisia: quella che incasella e stereotipa, facendo della zitella, ad esempio, qualcuna che comunque non potrà mai emendarsi dal suo status (“Non è tanto si futta o non futta – spiegherà la sarcastica Donna Clotilde -, è un fatto sociale. La donna maritata avrà sempre un’altra testa…”); figurarsi se, in aggiunta, sia pure una parente povera e figlia naturale di una stiratrice (ergo non nobile).

Con tutto il tono graffiante, ironico e sagace, che la lingua e l’arguzia partenopea le consentono, Donna Clotilde (una Gea Martire capace di portarla in scena con tutto il piglio e la zampata di una Tina Pica) incarna – specie nel primo atto – il prototipo di un misantropo in gonnella con, in più, l’aggravante manipolatoria di un costante quanto improbabile e spassosissimo stato di prossimità alla dipartita. E questo fa di lei un burattino irriverente: chissà che non sia, pure questa, suggestione implicita in quelle verticalizzazioni evocative della nobildonna in ampissima e diafana camicia da notte, a metà fra il fantasma che presto dice che sarà e, appunto, una testa e due braccia che si agitano al culmine di un candido buratto. Co-protagonisti di questo esilarante delirio farsesco sono Gesualda, la cugina zitella e per di più di umili origini (una Chiara Baffi, che sembra essere andata a bottega dalle più grandi, tant’è la sua capacità di alternare una stereotipata accondiscendenza da copione, ma poi, specie nel secondo atto, anche tutta quella furia baccanale alternata a psicotico distacco, che sembra pescare nelle più ancestrali superstizioni sulle donne: “Il diavolo è donna, dicono…”) e il supino ed ossequioso – ma, poi lo scopriremo – in realtà solo apparentemente tale, parroco Don Catilino (Fulvio Cauteruccio dalla performatività alla Ciro Masella), E, finalmente, Ferdinando (un giovane ed aitante, come da copione, Francesco Roccasecca, ma con un’agilità attorale già da decano), Chi è costui? In un sottile gioco pirandelliano, il ragazzo, dall’apparenza angelica, si rivelerà invece non solo elemento deflagrante di questi falsi e astiosi equilibri apparenti, ma finirà con lo svelarsi esattamente il contrario di colui che si credeva essere – e, come un subdolo splendido Lucifero, esattamente ciò che più si paventava, ma che mai ci si sarebbe aspettato di covare nel proprio seno. Già, perché il bello e disarmante Ferdinando, riuscirà a conquistare tutti, risvegliando in ciascuno quelle torbide passioni, che, se per gli uni (Donna Clotilde e Don Catilino) diverranno ragione di morte e vendetta, sì, ma anche il caldo godimento di una stagione da cui ormai non si attendeva più tepore alcuno, per Gesualda, invece, in fondo sarà solo occasione per ghermire, rapace, quel che la vita le aveva costantemente negato – e chissà che in quel non saperne effettivamente godere non sia la conferma dell’inemendabilità del suo status di zitella gelosa e rancorosa, come l’impertinente cugina l’aveva spesso apostrofata.

In scena fino al 4 novembre 2018 al Teatro Parenti, dunque, un’occasione per assistere a un teatro ben fatto, intelligentemente diretto ed egregiamente scritto e, in controtendenza a molte drammaturgie dell’oggi, che si fregiano di voler solo istillare domande – quasi fosse un peccato mortale suggerire o quanto meno gettar sul tappeto (le proprie) risposte -, capace di chiosare tuonando contro la perdita della memoria, ad esempio (“Chi non ha passato […] non ha futuro”) o dispensando perle di umana – ahi quanto meravigliosamente umana – saggezza concreta e popolana.