D’Elia e la sua ‘Mirandolina’ gustosa come una big babol

In barba alle annose discussioni sul teatro. “E’ vivo? E’ morto? Ha ancora senso andare a teatro nell’era dello streaming e di tutte le più sofisticate diavolerie cinematografiche – comodamente scaricabili, per di più, con un click dal divano di casa propria? E ancora: per chi si fa teatro? Per il pubblico? Per la critica?” Ecco: in barba a tutto questo, poi ci sono spettacoli, che, senza pretesa di veicolare chissà quali messaggi trascendentali, riescono a rispondere – in modo fulmineo – a queste domande, pur senza porsele.

E’ il caso de “La locandiera” di Carlo Goldoni – lui, in effetti, l’autore; e, fedele, la riproposizione del testo -, ma un po’ anche di Corrado D’Elia. Il regista, infatti, qui prende in mano la partitura settecentesca e riesce a dargli nuova vita, cucendole addosso – ed è proprio il caso di dirlo, dato che D’Elia firma anche scene e costumi – un packaging dal look plastic e dalle vivaci tonalità in tecnicolor. Stuzzica gli spettatori, con la sua proposta inusuale e scanzonata. E se li porta a casa,  ingolosendoli e vincendo le resistenze anche dei più restii.

La Locandiera_mirandolina

Perché non c’è che dire: un’operazione ben studiata fin nei dettagli. La scenografia – godibile già dall’ingresso in sala – immediatamente mostra lo strano binomio fra il volutamente finto – le poltrone disegnate come in un fumetto e così le finestre dichiaratamente posticce – e un’attenzione quasi maniacale ad dettaglio – sul mobile a fondo palco oggetti scelti, posizionati con cura e lampade accese e collocate con gusto. Una dichiarazione d’intenti, quasi: “Giochiamo, sì, ma al gioco del teatro…” – che, come diceva Loescher del proprio lavoro: “E’ un gioco, ma terribilmente serio”. Il tutto in salsa… fuxia – a sottolineare la cifra scanzonata e disimpegnata, che la regia intende tenere.

La Locandiera_cavE procede per tesi, D’Elia; meglio: porta avanti la sua tesi per accrescimento – indovinando, per ciascuno degli altri aspetti dell’allestimento teatrale, la giusta maniera di confermare la sua linea. Così azzeccato è lo stesso jingle/tormentone – quell’ Amoureux Solitaires di Lio, che ci catapulta indietro di oltre trent’anni… -, il cui con tono giocoso e scanzonato, racconta invece del disincanto di un amore di plastica – guarda caso -, un diversivo mordi-e-fuggi ad una vita fatta di relazioni impossibili. Ma probabilmente le poche note non bastano a far ricordare il testo. E va bene così: perché quel che si vuol trasmettere, qui, D’Elia, è la gioia del rosa Big Babol e del suo profumo di fragola, che sembra quasi scaturire dalle pareti in lattice. Indovinate, sono pure le sequenze in cui,  quasi fotogrammi di un coloratissimo cortoon, in rapida alternanza col buio vengono introdotti, dapprima i personaggi, e poi questo stesso escamotage viene riutilizzato – a più riprese – nelle sequenze narrative di servizio – divertenti, sì, ma che forse avrebbero finito con l’appesantire, se fossero state raccontate in modo tradizionale. Una questione di ritmo: e certo D’Elia è un virtuoso dell’andamento serrato – che, in questo caso, paga.

Felice è anche l’adesione a quella tra-di-zione libera rivisitazione dell’etimo “tra-d-ire” , composto da “trans”/oltre ed “ire”/andare -, che dice sì di un passaggio di testimone, ma inteso come un inveramento, appunto – piuttosto che come un gesto di asettica o fanatica presa in consegna. Una tendenza sempre più diffusa, nel ragionar di teatro, in questi ultimi anni – la stessa ultima conduzione artistica del Teatro dei Filodrammatici va in questa direzione; e non di meno fa, da qualche anno, anche un regista del calibro di Latella, tornato da poco ai clamori della cronaca per la sua rivisitazione di “Natale in casa Cupiello”. Ma credo che altro, invece, sia l’intento di D’Elia. Credo che quello che voglia suscitare sia il rinnovato interesse per il Teatro da parte di un pubblico variegato e chiassoso, che non per forza si riconosca nelle sottili sofisticazioni di un teatro destrutturante, ma che sappia godere di quella leggerezza, che pure c’è – a saperle restituir grazia – nelle opere apparentemente ingrigite della classicità. Un po’ l’operazione fatta, di recente, con la trasposizione pop di “Amleto”; e che qui torna a dar sfoggio di sé – il primo allestimento di questa “Locandiera” è del 2008 -, restituendo l’autenticità del testo, delle intenzioni, delle cifre tipiche di quella scrittura – penso agli ‘a parte’, confidati al pubblico a fil di ribalta, o alla forte connotazione ‘caratteristica’ dei personaggi/maschera della Commedia dell’Arte o ai loro lazzi -, mostrando come talvolta basti un’intelligente opera di restyling per portare alla luce il fuxia shoking, che palpita sotto la smunta patina del rosa antico.

La Locandiera_down

Certo, perché una così ben studiata macchina funzioni, merito è anche del un cast: di prim’ordine. Mirandolina è interpretata da Monica Faggiani, che con disinvoltura e bravura incarna gli abiti di una spregiudicata modernissima Winx, mixando un credibile registro recitativo realistico alle movenze spiccatamente civettuole, che il ruolo le impone. Attorno a lei una corte di interpreti ciascuno assolutamente adatto e preciso nel proprio amplificato ruolo: il Marchese di Forlipopoli, che gustosamente Gustavo La Volpe ci restituisce nelle movenze di un  aristocratico decaduto, ma ancora molto gagà e il Conte di Albafiorita/Alessandro Castellucci, ricco pervenu, che ostenta la propria ricchezza; Fabrizio/Marco Brambilla, il servitore della locanda, segretamente promesso della padrona, e il Cavaliere di Ripafratta/Corrado D’Elia, bisbetico misogino, domato e gabbato dall’apparente non curanza della locandiera; e poi Ortensia/Tino Danesi e Deianira/Andrea Tibaldi, nel ruolo di due attrici, che si fingono nobildonne nella speranza di trovar partito. Argutamente D’Elia sceglie di affidare questi ruoli a due uomini. Il messaggio è fin da subito esplicito: l’inganno nell’inganno. Tanto più nell’esilarante interpretazione di Tibaldi, che della ‘sciocchineria’ femminile ne fa un proclama – amplificandola nelle sua mimica plastica e disarmante.

Ed il pubblico risponde. Lo spettacolo sarà in scena al Litta fino a domenica prossima, 25 gennaio: per le ultime giornate è prevista la doppia replica.

Lascia un commento