Marquez, Accordino e il più spaventoso dei demoni

E’ una chicca, quella che Corrado Accordino scegli di portare in scena: “Dell’Amore e di altri demoni” – Gabriel Garcia Márquez, 1994 – al Teatro Libero fino a lunedì 23 marzo. E lo fa nel solo modo possibile: una lettura interpretataa leggio – per far gustare tutta la corposità di un quel realismo magico, che definisce la scrittura densa e preziosa dell’autore colombiano. Lo fa prestando la voce a pagine fitte di descrizioni, turbamenti, considerazioni – inattuali, per l’epoca dei fatti: quella dell’Inquisizione Spagnola, a ritroso di cinquecento anni dall’oggi. Lo fa con una generosità che dalla voce passa al corpo – non c’è teatro senza corpo -, arrivando all’acme, in cui è lui la ragazzina indemoniata: basta un solo gesto – amplio, solenne ed arrotondato, al di sopra del capo – e immediatamente eccola, tutta la furia, che ha, nella chioma selvaggia e prepotente della piccola, la promessa di una irriducibilità sansonica.

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Colpisce, la storia. La trama, a dipanarla, è la lineare evoluzione – un po’ nemesi, un po’ impietosa conferma – del pregiudizio veristico del ‘talis mater, talis filia’. Così, come la borghese creola Bernarda ha sedotto l’anziano marchese sottraendolo alla sua vita precedente, similmente l’ancora adolescente figlioletta sedurrà, sé nonostante, il prete chiamato ad esorcizzarla.

Similmente. Già perché in questa sorta di verismo d’oltreoceano c’è di più del semplice contrappasso. C’è la denuncia, anzitutto – e qui la lettura di Accordino è attenta a farne rimarcare il peso – di una società bigotta e moralista, che più semplicemente bolla, stigmatizza e perseguita quel che non comprende; più facile, certo, che soffermarsi ad analizzarlo, provarci ad avere e che fare e correre il rischio di restarne invischiati – come succede, un po’ da copione, al giovane prete. E quel che non si comprende, qui, è la spasmodica bulimia d’amore della piccola Sierva Maria de Todos los Angeles. Figlia indesiderata e per questo cresciuta dalla servitù di casa, la ragazzina assorbe riti, idiomi, usi e costumi ancestrali di tutte le tribù africane rastrellate alla cieca nella furibonda razzia dei neri. Ed in lei tutto questo sembra condensarsi come in un crogiolo alchemico, sublimandosi in un esserino rabbioso e bisbetico, la cui intrattabilità è più figlia della mancanza d’amore che del morso infetto di un cane malato. Eppure questo non le impedirà di subire la purga dell’assatanata, una volta appurato che probabilmente non è un male fisico, ciò che la possiede. Un altro è il demone: e questo, in fondo, fa più paura.

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Così, procede, la lettura di Marquez – che poco concede alla disamina psicologica, a briglia sciolte invece nell’immensa distesa dell’evocazione narrativa. Qualche stralcio di dialogo, tipizzazione appena accennata e passaggi di forte pathos interpretativo sono gli altri elementi, che caratterizzano il reading recitato di Accordino. A fargli da spalla un enorme schermo a centro scena: lo sovrasta, visivamente, ma solo a tratti riesce a strappargli il ruolo di coprotagonista. Nonostante la bicromatica scelta estetica di figure stilizzate – dall’acerbità a tratti fantasy, a tratti naif -, resta lui, il vero mattatore. Incuriosiscono, le immagini – specie nei passaggi più simbolici: dal succedersi delle diverse sagome, in cui si scardina la matrioska, fino alla My Doll, che deflagra nei suoi arti per poi polverizzarsi. La dicono lunga, i fotogrammi, a proposito di una certa idea della concezione dell’universo femminile – nella sinestesia dell’attimo, che all’istante fonde significante e significato, voce e suggestione, immagine, concetto ed emozione. Ma per lo più descrivono, accompagnano, restituiscono, rimbalzandolo sullo schermo, ciò che le parole ed il piglio dell’interprete riescono già di per sé bene a evocare. Infelice, forse, anche la sua collocazione a fior di proscenio, che, prosciugando la profondità, rende il tutto gratuitamente asfittico, rendendo difficile la visuale di quella parte dei disegni, che occupano la zona più in basso. Decisamente più efficace, se questo è l’intento, la sagoma luminosa, a mo’ di celletta claustrale, che incornicia, stringendolo nell’angolo, Corrado Accordino – per tutto il tempo del racconto delle incresciose vicende nel convento. Così il suo dibattersi e dimenarsi, nell’incarnare gli abusi raccontati, diventa epifenomeno di una ribellione, che è quella dell’uomo contemporaneo di fronte ad atti di oscurantismo, che la nostra società perpetra – si legge fra le righe – anche se sotto differenti spoglie.

Eccolo, il demone più angosciante: quello che incombe su ciascuno di noi e che, mutatis mutandis, implicitamente ci evoca ad un duello, che è quello del giovane prete, ma che tanto sa di quello dell’Innominato manzoniano.

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