Con Teatro del Carro, Spartacu(s) vive ancora

Al PimOff di Milano il 5 e 6 giugno 2024, “Spartacu strit viù” di Francesco Gallelli, anche performante attore, e Luca Maria Michienzi, anche alla regia. È così che la calabra compagnia Teatro del Carro porta in scena il suo tributo a Franco Nisticò, Presidente del comitato per la ss 106 qui trasfigurato in una bizzarra creatura “mitologica”. Mezzo gladiatore e mezzo automobilista, è il suo casco di protezione a mostrare anche i tratti dell’elmo dell’antico eroe.

SULLA SCIA DEI MAESTRI DEL ‘900

Quel che colpisce subito, di questo lavoro teatrale, è la fatica, fisica, a cui è sottoposto, per tutto il tempo, il performer. Quante ne abbiamo visti, di monologhi, sui più disparati temi, di rilevanza sociale o anche no, puntualmente raccontati attraverso gli occhi, il corpo, il sudore e la fatica, inevitabilmente anche fisica, dell’attore? Eppure, qui, c’è qualcosa, che pare rasentare il sadismo.

Un’apparentemente gratuita scelta registica, infatti, impone di far saltare alla corda il protagonista per praticamente l’intera durata dello spettacolo. Drammaturgicamente, lo si può forse spiegare col tipo di preparazione atletica dei pugili – in qualche modo contemporanei succedanei dei gladiatori. L’intento, invece, più probabilmente è quello di sfiancare il performer. Sfiancarlo, per piegare la macchina; sfiancarlo, per lasciar affiorare tutta la verità dell’attore – e, qui, tutto il furore, dello schiavo tracio. Sfiancarlo, affinché attraverso il transfert teatrale arrivino anche al pubblico, per empatico istinto di cum-passione, tutta la fatica, la frustrazione, la rabbia, il furore, il senso di impotenza e sopraffazione e, al fine, di rivolta, che ruggiscono in questo moderno schiavo. Torna in mente il teatro della crudeltà di Artaud e il suo riecheggiare nel Living Theatre, in Grotowski o nel Terzo Teatro, in questa ricerca della verità nella performativa.

VOCAZIONE TESTIMONIALE |

Con ritmo furente e forsennato – a scatenarlo, la giaculatoria di nomi, età e paesi di provenienza di una comunque minima percentuale dei morti sulla SS 106 -, il protagonista ci trascina nell’irresistibile avanzata di fatica, sacrificio e liberazione giù giù fino a Reggio Calabria.

Ce lo raccontano così, questo trasfigurato Spartacu/Franco Nisticò, stroncato da un infarto proprio al termine del comizio, da lui tenuto in occasione della posa della prima pietra del fantomatico Ponte sullo Stretto. Ce lo raccontano così, come un uomo, che si batte per la salvaguardia della sua terra, a partire proprio dalla messa in sicurezza della statale, unica arteria ad attraversarla, da un capo all’altro, con la sua scia di vittime silenti.

Poi le cose un po’ si mischiano – e chissà quanto vita dell’attore o del drammaturgo fanno capolino nella biografia di quel personaggio, che, in fondo, vuol essere appunto solo il prototipo e il testimone dell’uomo comune. Perdutamente innamorato della sua terra (struggente il racconto della reazione al solo sentir nominare l’ennesimo morto, ma del proprio paese: trasale, perché, “du paesi toi, ami puri li nemici”), non importa se vi sia incatenato da condizioni di lavoro insostenibili. È la visceralità – ben resa, nello spettacolo, dalla scelta di un pur comprensibilissimo dialetto – a farlo tornare. E non importa, l’inutilità della gavetta fatta in giro per lo Stivale, né che, alla fine, nella sua terra, abbia potuto trovare soltanto un lavoro, che, a conti fatti, gli frutta giusto i soldi per la benzina e interminabili chilometri sulla statale della morte. Eppure lui salta… Salta, suda, s’indigna, ironizza. Non mancano le mille sfumature di un animo, che, fra puntiglio e leggerezza, cerca di barcamenarsi, facendo di necessità, virtù e della derisione, accoglienza – perché, almeno, lui, qualche amico o parente da avvisare, in caso di morte, e che lo piangerà, ce l’ha.

TUTTO TORNA

Straziante, come immaginabile, l’epilogo; anzi, il doppio epilogo. Al suo grido di rivolta, “Inferno!”, riecheggiante il più noto: “Al mio segnale, scatenate l’inferno”, si sostituirà un assordante, straniato: “Silenzio” – che è il congelamento emotivo dell’uomo sotto shock, ma, in filigrana, anche l’uso della comunità (“Mo’, che prendo la macchina, non appicciare l’autoradio, che fa vrigogna…”). E, in quel silenzio assordante, la voce fuori scena di quell’ultimo comizio.