Carmelo Rifici e quella “pericolosa” relazione col Teatro

Potentissimo e magistrale, “Le relazioni pericolose”, per la Regia di Carmelo Rifici, in scena al Teatro Elfo Puccini di Milano solo fino a domenica 5 marzo 2023. Liberamente tratto dall’omonimo romanzo epistolare di Laclos, sotto all’occasione prossima della perfida macchinazione di capricciosi campioni di una noblesse di lì a poco travolta da epidemia e Rivoluzione, questa riscrittura di Carmelo Rifici e Livia Rossi condensa, in un disegno rigoroso e lucidissimo, la più feroce e spietata denuncia della belluinità dell’essere umano. Lo fa riappropriandosi della parola, il più straordinario strumento concesso all’uomo, in cui precipita sonorità dall’estensione sorprendente e a suo modo stroboscopica e il peso – insostenibile -, di chi seppe usarla come granata. Ed ecco, allora, l’eco del pensiero di Artaud, Dostoevskij, Diderot, Simone Weil, Pasolini e di quel Nietzsche, che, scelto certo non a caso, nei suoi biglietti della follia, di sé scriveva: “Io sono dinamite!”.

L’idea registica

Quale modo migliore per apparecchiare l’apoteosi della parola, se non regalare alla pièce la forma, quasi, del radiodramma? Questo e la cifra del duello – che da oziosa scaramuccia deflagra in guerra -, le idee fondanti. Sulla scena s’incarnano in figure algide di bianco vestite, che al tempo stesso dicono dell’intoccabilità, ancora per poco, di quell’élite, eppure del suo essere già quasi spettro, sogno e parvenza. Solo le loro voci le animano, nonostante tutto quel parlare di intrighi e passioni e struggimenti e gemiti e desideri proibiti, stuzzicati, respinti e poi finalmente accolti, consumati e divoranti, come solo quel che si sia a lungo fuggito sa esserlo.

Nonostante tutto ciò, i loro corpi paiono simulacri vuoti, adagiati su purpurei divanetti da boudoir, nel tempo del silenzio. E le due ore piene dell’atto unico volano come frullo d’ali, tenendoci avvinti a quella partitura densa di significati, significanti, idee, emozioni, metafore e improvvise stoccate, che, fulminee, aprono squarci impietosi sulla natura dell’animo umano. Ci catturano il complesso e sottile ordito della macchinazione tramata, la nitida geometria dei movimenti scenici (di Alessandro Sciarroni) e la pulizia di una drammaturgia, che mai deflette dalla strumentalizzazione sacro/profano, essenziale/inessenziale, divertissement/senso.

Teatro “a servizio”

Ad un’ora, quasi, dall’inizio – ancora avvinti dalla singolarità del rigorosissimo, complesso, minuzioso e delicatissimo meccanismo scenico-drammaturgico -, arriva un primo affondo. Escussi, fino a qui, ad uno ad uno, i protagonisti di quell’intrigo, è proprio nella fase del carteggio in cui si narra della serata teatrale, che Rifici ci sustanzia la sua idea di regista: se non un dio, certamente un demiurgo. Eccola, l’idea che passa del metteur en scène. È lui infatti che, plasmando una materia preesistente (i corpi degli attori, sì, non meno delle loro intonazioni, intenzioni, vocalità, prossemiche… e poi lo spazio, il tempo, le immagini – fra cui quelle proiettate, che compone, scompone, sovrappone e sfuma, giustapponendole in una babele di rimandi e suggestione, complice anche il violino elettrico suonato dal vivo), ne fa veicolo e strumento e cassa di risonanza, di quel pensiero-idea (nell’accezione classica di immagine e quindi visione, visionarietà e Weltanshauung), a cui guardava il platonico Demiurgo, appunto, nel plasmare la chora (ovvero la materia a lui preesistente e onticamente altra). Lo si percepisce distintamente, dai posti in fondo alla Sala Shakespeare del Teatro Elfo Puccini, da cui sembra di dominare lo scacchiere delle sorti del mondo – o, quanto meno, di quel mondo lì… non così diverso, nelle meccaniche, probabilmente, da ciascuno degli innumerevoli altri mondi possibili.

Un progetto politico e doverosamente ambizioso

È esattamente qui, che il duello si fa panico ergo politico. L’ombelicale vendetta della Marchesa di Merteuil e la sua sprezzante noia per questo o per quello, si fa scontro fra titani. Il confronto col complice-e-rivale Visconte di Valmont sublima in una disamina/agone su cosa sia il teatro. Divertissement? Exemplum edificante? Peste? Conflitto? Rituale? Catarsi? Impossibile non sentirsi coinvolti: non era questo, del resto, il senso e la funzione del teatro secondo Diderot? Nessuna tesi sembra prevalere; solo occasione preziosa per ricordare senso e valore del fare/andare a teatro: poi, a ciascuno il suo – ognuno deciderà per sé.

Ma, a ben vedere, è l’intero spettacolo a lasciar di tanto in tanto trasparire, sempre più verso l’epilogo gli inaspettati bagliori di minuscole perle di umanissimi senso, verità, rivelazione, confessione e al fine, chissà, compassione (gli antichi la chiamavano pietas) per ciascuno di quelli che, carnefici compresi, in qualche modo sono essi stessi vittime. E pure questo contribuisce a non darci tregua: quale coscienza potrebbe mai assopirsi, fintanto che continui ad esser punzecchiata e presa di mira?

Quadro e cornice

Se questa è la possente ossatura, il solidissimo scheletro, non di meno, ha potuto avvalersi della collaborazione di eccellenti artisti. Oltre ai già citati Carmelo Rifici, Livia Rossi (quest’ultima pure in scena nel ruolo di Cecile) e Alessandro Sciarroni e a tutti coloro che hanno lavorato in maniera impeccabile nella realizzazione del progetto, un cast di attori tutti di prim’ordine e senza sbavature, fin dalla sera della Prima. Accanto ai nomi di più consolidata esperienza quali Elena Ghiaurov (la spregiudicata Marchesa di Merteuil), Monica Piseddu (l’assennata e riluttante Presidentessa di Tourvel) ed Edoardo Ribatto (il seduttore Visconte di Valmont), i giovani Flavio Capuzzo Dolcetta (Il giovane ed idealista Cavaliere Danceny), Livia Rossi (Cecile Valanges, giovane cugina della marchesa, appena uscita dal collegio religioso e promessa sposa) e la compositrice e sound designer Federica Furlani.

Tutti straordinari e generosissimi nel dar voce, coi loro corpi, alla parolache, accanto a quella conoscenza che nasce dall’osservazione, come ricorda la Marchesa, è il solo vero strumento di potere; la parola, fiato dell’anima, che invece l’ormai sedotta e persa Cecile, ammetterà essere schiava di quel corpo rapace, in barba agli insegnamenti neoplatonici impartitile in collegio. Eppure chissà quant’altro ancora, rivedendolo: uno spettacolo ricchissimo visivamente e denso di contenuti dalla cura straordinaria e dalla potentissima capacità evocativa, giocata in un perfetto mix di immagini classiche e allusioni mondane per inchiodarci al senso del nostro Dasein e In-der-Welt-sein