Arguzie teologiche… in salsa Odemà

Già marchiati dalla vermiglia lusinga di un diavolo, che non ti aspetti -un po’ Chaplin, ma con la suggestione estraniata di Ibsen-, entriamo ad assistere a questo “A Tua immagine” degli Odemà, che, ieri, ha inaugurato la Stagione del TdC.

fotografo Marco Caselli
fotografo Marco Caselli

Se già l’incipit -una sorta di: “In principio era il Verbo…”- riecheggia delle tematiche ‘seriose’, contro cui gli stessi attori/autori vogliono ‘remar contro’ -alleggerendo…-, non differente è il proseguo: che continua a scegliere -intenzionalmente e consapevolmente- di trattare temi decisamente al di fuori dei rumors della vita di tutti i giorni: questioni teologiche ‘alte’, quali la natura di Cristo (questione monofisita), l’accezione del suo esser ‘figlio’ di Dio (‘ùios’ o ‘téchnos’?), la lotta quasi manichea fra Bene e Male e -ciononostante- il legame a doppio filo fra loro, affinché ciascuno dei due possa persistere (necessità del Male nel mondo)…; ma anche questioni legate al potere e quanto si sia disposti a sacrificare pur di mantenerlo; di queste, soprattutto, si tratta nella seconda parte ideale dello spettacolo: quando un ‘dio’ ostentatamente reticente, a seguito delle continue insistenze del ‘figlio’, si decide a parlare della ‘chiesa’ e di ‘crociate’ e  ‘inquisizione’ quali strumenti per consolidarla e diffonderla nel mondo.

Eppure persiste, in questa “via crucis d’avanspettacolo” -questo è quanto riportato alla voce ‘genere’ della programmazione del TdC- una forsennata vocazione alla leggerezza, sospesa fra ‘Mistero Buffo’ di Fo ed una sorta di gaberiano ‘Teatro Canzone’ -moltissimi gli stornelli (parole e musiche dello stesso Ballardini, per lo più) da cui è animata la pièce: da quello che inizia con: “L’uomo è un legno buono…”, in cui si allude all’assoluta malleabilità della ‘creatura’ nelle mani (e nelle ‘strategie’, verrebbe da dire…) del ‘Creatore’, alle ballate ‘promozionali’, in cui si sciorina l’interminabile teoria di martiri, che produrrà la Chiesa pur di placare l’inestinguibile sete di affermazione egocratica di questa divinità delirante, fino al “Un blasfemo”, di De André, a dar un po’ il senso al tutto: “non Dio, ma qualcuno che per noi l’ha inventato/ ci costringe a sognare in un giardino incantato…”-.

Dunque: “Si ride?”, verrebbe da chiedersi; sì, certamente non si può non ridere di fronte alle trovate di quest’inedita triade, un po’ armata brancaleone: Dio/’padre’ (immaginato come una sagace vecchia bisbetica -posseduta da un irrefrenabile delirio di onnipotenza- ed impersonata da una strepitosa Giulia Diletta D’Imperio, che la fa da padrona con un lavoro sia mimico che vocale così preciso da farci scordare la sua effettiva età anagrafica, innescando uno spontaneo transfert verso Tina Pica), il ‘figlio’ (Davide Gorla: un po’ coscienza collettiva, un po’ cartina di tornasole nel riportare al un ‘principio di realtà’ le deliranti ambizioni del ‘padre’: di cui spesso si meraviglia, s’indigna, a cui si ribella… ma poi -come capita- si arrende: di fronte ad una volontà certo incomparabile alla sua) e il ‘diavolo’ (elemento antitetico -nel senso hegeliano del termine, anche-, che le prova tutte pur di raggiungere una ‘sintesi’ definitiva e conciliatoria -“Che non si dica, un giorno, che il Diavolo non ha tentato Dio…”-, nel crescendo di un personaggio d’esordio volutamente impacciato e sottomesso, manipolatore, poi -né vile, né ignavo, ma semplicemente alla cerca di una comoda assoluzione verso i posteri-, fino alla riscossa dell’arcangelo della seduzione: ed Enrico Ballardini riesce a trasformarsi, in questo processo, con una tal naturalezza e poliedrica credibilità, da non farci quasi accorgere che, per certi aspetti, in fondo è lui, il vero protagonista: col suo porsi nella moderna spregiudicatezza di chi non teme di passar per quel che non è, pur di centrare lo scopo-. E poi: un superbo sistema di simbolismi -dal drappo bianco-materia informe, sostrato e ricettacolo di (neo)platonica memoria, ma anche ‘quinta’, all’occorrenza e telo ‘pietoso’, al gioco del ‘bacio’ -in scena, ma anche fuori: perché se è vero che l’altro nome del diavolo è ‘peccato’,come ricorda la stesso ‘dio’, è altrettanto vero che non c’è uomo che non ne abbia commesso uno: e che, perciò, dobbiamo tutti pentirci…-; dalla splogliazione del ‘figlio’ -benché le sue vesti, qui, nessuno intenda giocarsele a dadi…-, che ne rivela lo stilema tradizionale dell’INRI, a quel calzar zoccoli, da parte del diavolo, sovrapponendolo idealmente all’iconografia dei ‘satiri’ -spiriti gaudenti ed irriverenti della tradizione pagana-, in filigrana al discorso monoteista: questo, per citarne solo alcuni.

Per chi si fosse lasciato stuzzicare, lo spettacolo è in replica al Teatro della Contraddizione da stasera e fino -solo- a giovedì, 3 ottobre…

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