Accordino ed il suo D’Artagnan: un pre-testo per far (meta)teatro

Un pretesto: in fondo è questo, il “D’Artagnan”, scritto, diretto ed interpretato da Corrado Accordino, in scena al Libero di Milano dal 23 aprile all’11 maggio – e, subito dopo, al Binario7 di Monza: dal 15 al 18. Un pre-testo, però, nel senso etimologico del termine. Nel senso: un qualcosa che viene prima del testo – ce ne restituisce, infatti, la temperie ideale, il pathos, gli afflati, le suggestioni: ideali ed emotive… ché, tanto, il testo, lo conosciamo poi un po’ tutti quanti, sembra essere il tacito accordo col pubblico – ed accanto a questo, come ben ci vien raccontato dal chiacchiericcio, a luci spente, di due ipotetiche voci del pubblico ad interrogarsi sul senso di un’operazione del genere.

D'Artagnan 2

Procede infatti su due binari, la drammaturgia di Accordino: da un lato quest’apparente lettura scenica, in cui, one man show, c’ intrattiene piuttosto con un’esigenza di recupero di quel coraggio e di quei valori, che il mondo contemporaneo sembra aver dimenticato – e che calpesta… -; dall’altro le buie incursioni di due ipotetici stralunati amici, nel pubblico, a dar voce in parte, allo sconcerto di chi effettivamente avesse avuto l’aspettativa di veder rappresentata una vicenda di cappa e spada, in parte ci aiuta a ragionare con l’autore, comprendendo il senso ed il movente di quest’operazione. In leggerezza: a contrappeso delle tematiche esistenzialmente importanti che incrociano il ferro con la prosaica voluta impazienza di un pubblico, che forse cerca soltanto un po’ d’intrattenimento, a teatro, e – se lo spettacolo è stato bello, sottolinea l’amico più prosaico – andare a mangiare un boccone tutti insieme, dopo. E, invece, si trova di fronte a quest’apparente cripticità. E, allora: che senso dare a tutto ciò? Si apre come una chiamata alle armi: “Il mondo è un regno instabile… l’onore è calpestato…”; così sembra inevitabile evocare figure eroiche capaci di battersi per onore e libertà: per quell’ideale, che non cede al compromesso; per quella “Verità fatta di sfumature… e di dettagli improvvisi”. Ed è qui che il palco inizia ad essere inondato da una fittissima coltre di fumo: che, presto, esonda anche in platea. E’ proprio, questo, in fondo, un ulteriore suggerimento esegetico: la nebbia quale condizione esistenziale dell’uomo contemporaneo e quella sorta di scudi – che comunque riflettono lampi… di senso, forse: complice pure un sapiente uso delle luci – a significare quel che ancora guizza, ci anima e ci emoziona: nonostante tutto. –Questo mondo è un regno instabile, irto di pericoli, dove l’onore è calpestato dalla corsa al potere e la libertà umiliata ogni volta che il debole è oppresso dal più forte…” e, ancora: “Quando si è visto, negli occhi di qualcuno, la felicità risplendere, si capisce che non può avere altro senso la vita se non quello di far scaturire quella luce sui volti di chi ci circonda, e ci si può annientare al solo pensiero della tristezza e del dolore che diffondiamo, per il solo fatto di vivere egoisticamente, nei cuori di chi incontriamo”, dice.

D'ARTAGNAN

E avanti così in un’apparente alternanza di soliloqui: l’attore che, sembra prendere spunto da Dumas soltanto alla lontana – nell’investitura/benedizione del padre di D’Artagnan, ad esempio, e poi nel menar le mani, dei quattro, nelle osterie… – ed i due del pubblico ad esternare la loro lontananza da questinuovi linguaggi teatrali” – “Mi sembra una cosa tutta sua… usare il palcoscenico per esibire le proprie ossessioni…”, commentano. Eppure Accordino ce la fa, a farli incontrare e veder scoccare la scintilla del contatto fra pubblico e drammaturgia, teatro e metateatro. Già, perché quest’asintotico gioco di avvicinamento ad un certo punto si svela: la necessità di agire e di battersi – bello ed appassionato, il lungo monologo del “Mi batterò perché tu possa esprimere le tue idee… anche se non le condivido… mi batterò sempre e comunque perché ce n’è bisogno… perché ne ho bisogno.”si rivela nella sua natura oggigiorno lontana dalla tenzone: “la grammatica è azione” e “il duello diventa dialettico” perché “il nemico, oggi, è invisibile”. Et voilà! Eccolo, il senso di quella nebbia e dell’accorato e quasi anacronistico parlare di ideali – come in punta di fioretto – e della necessità di ritrovare una consistenza reale, in questo mondo fatto dalla non-identità e dall’incomprensione del non-appartenere – la moderna paura dell’escluso… -, che ci spinge a frettolose corse di omologazione sui social network o ai modelli imposti da moda e mass media. Contro tutto ciò viene evocato, qui, D’Artagna: creatore solitario, che non può che restar fedele a se stesso, per non perdersi. Eppure non eroe algido e senza macchia; al contrario: un uomo – un po’ anche scavezzacollo, se vogliamo: ed è proprio in questa scelta di profonda umanità, che il drammaturgo azzecca il link con l’ inevitabilmente empatico interlocutore – con tutta la sua umana fragilità.“Si vive… di piccole cose… si vive… e non sempre si muore con le armi in pugno: anche se sarebbe una fotografia meglio riuscita…”. Ciononostante un uomo anche con tutta la sua prepotente ed irriducibile pulsione ad meliora, come intona nell’ultimo canto, in cui, sciorinando le 100 cose da fare – o da non fare – per poter resistere – “un piede nella realtà… un piede nella magia” -, Accordino non manca l’occasione anche per una dichiarazione d’amore: all’Arte, al Teatro, insieme a tutti quei piccoli gesti dalla prosaica laicità, che lo spingono a chiosare con le significative parole rubate allo stesso Dumas: “La vita è un rosario di miserie, che il filosofo sgrana ridendo”.

Dunque non certo un’azione scenica nel senso tradizionale del termine, questo “D’Artagnan”; ma piuttosto un pre-testo, come si diceva, per fare il punto: una dichiarazione d’amore a quella femmina bisbetica, ma irrinunciabile, in fondo, che è una vita degna di essere vissuta. Quel che resta è il perdurante sentimento di quell’emozione autentica – ed inverata di senso… – che il generoso, poliedrico ed efficace Accordino ha saputo costruire per il suo pubblico e poi, accompagnarcelo, portandolo per mano.

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