Elena: sofisticata caducità di un mito

“Sic transit gloria mundi” o, anche: “Panta rei” o, ancora: “Vanitas vanitatum”.

Queste, le eco – solenni! – che risuonano nel gelido sconcerto, in cui ci lascia l’occhio di bue: spegnendosi nel suo vuoto anulare… Parole pesanti – ma anche ponderate, come la radice etimologica di ‘pondus’, appunto, rivela -; parole solenni, dicevo, ed è forse davvero questo il termine più corretto, perché siamo al cospetto di una ‘tragedia’ – in fondo – e ‘lirica’ – non a caso, in cui, dietro ad un velo-di-Maya, un coro di ben 12 elementi si posiziona a duettar con la protagonista … – sulla ‘deriva del mito’. Wow.

http://www.elfo.org/stagioni/20132014/elena.html
http://www.elfo.org/stagioni/20132014/elena.html

Quel che vien subito da pensare, anche solo a leggere questo sottotitolo di “Elena – Tragedia lirica sulla deriva di un mito” , è che si tratterà di un brano corposo, impegnativo, stratificato: e, in effetti, è così. Al mio occhio di spettatrice – forse un po’ ‘pane e salame’, come si dice… – sono certo balzate tutta una serie di evidenze: il coro – tradizionale coscienza collettiva: qui di condanna, pare; ma la decodificazione delle parole non è sempre così semplice, per un orecchio poco avvezzo a questo genere di sonorità – relegato – come da tradizione – là da dove può solo emettere giudizi, restituire emozioni, brandelli di racconto, questo sì, ma da cui nulla può, quanto al modificare un’eventuale azione – scenica? -; un’azione drammaturgica giocata, quasi, al limitar del proscenio – specie nella recitazione delle figure di contorno ad Elena: lei, al contrario, più spesso in profondità, quasi a cercar un contatto/implorare un’impossibile redenzione attraverso quella membrana irremovibile… -; un’ambientazione essenziale e sofisticata al tempo stesso: con lunghi abiti da sera total black – a fasciare sia le protagoniste che i maestri di musica – e ganci a cui lasciar sospesi i fantocci – ché di questo si tratta… – dei coprotagonisti della vicenda, giustamente abbozzati nel rimando rapido di una giacca o di un fantoccio, tanta la loro lapalissiana inconsistenza nell’immaginario delirante della protagonista; e poi la triplice conflagrazione di generi: il coro – lirico, appunto –, una Medea/moglie del fedifrago Paride – ma non era, Medea, la moglie di Giasone? -, che si esprime col lessico della quotidianità, parlando con tono materno ed amorevole al figlioletto – ‘impersonato’ da un candido giubottino bianco di ‘peluche’, quasi: ad evocare tutta la tenerezza possibile, per quella creaturina malata e costretta alla dialisi, a cui la madre, pur infanticida e suicida, non sa togliere la consolazione di continuare a pensarlo come un eroe, il suo pur padre fantoccio… – e lei, Elena, in un luccicante sguardo/contegno da eroina anni “50, fulgida di una bellezza che è eleganza e… vacuità. Evidenze, già, si diceva; ma resta prepotente, la pungente sensazione che molto altro ci sia ancora d’ inesplorato: e vien da chiedersi se il teatro non possa essere un’esperienza meno sofisticatamente intellettuale e più ‘di pancia’…

Chiaro, invece, e ben a fuoco è il demonstrandum della tragedia: che la bellezza è ‘ombra’, ‘vanità’ – vacuità, appunto… -, nonostante il ‘molto rumore per nulla’, che tragicamente accade, attorno a quel suo: “La mia verità: sempre la mia”, ripetuto, a mo’ di scaramantica panacea e a cui fa da contrappunto: “Ci sei cascato: nei miei occhi”, rigurgito di vanità dietro cui si scherma Elena, nel capitolar dell’amante di turno. Così la sempre brava e convincente Elena Russo Arman, nell’interpretare un’ Elena fragile e civettuola, che tutto ordisce – con ammaliante e irresponsabile leggerezza -; una donna/mantide, che esige illimitati tributi umani alla sua inemendabile vulnerabilità pur di stemperare quel tempo che passa, lasciandole sul viso ‘rughe d’espressione’ – come le chiama – e, a poco a poco, la consapevolezza che la bellezza è ‘ombra’ – così allontana Paride: lei è ombra e lui non può possederla; tanto meno lui: ché a sua volta fugge dai propri fantasmi, come ha modo di rimproverargli la moglie… -, ‘malattia’ – così supplica il marito di non lasciarla: “Ermione ed io… siamo due malate: lei d’odio ed io di bellezza”: ma anche la bellezza ha bisogno che ce ne si prenda cura… -, ‘bestia’ – che, in fine, dice di aver messo in gabbia, nell’estremo tentativo di riavvicinamento a Menelao, una volta che, in classico stile tragico, tutto è compiuto e non rimane più nessun’altro… -. Ma non meno capace e versatile è Sara Urban: tenera madre prosaica, di cui sopra, ma anche factotum nel duettare con Elena, scivolando – generosamente – di personaggio in personaggio. Felice pure la regia di Alessia Gennari: molte le scene suggestive, una fra tutte quella iniziale – riproposta poi ancora, in chiosa… – di un Elena/sirena, che ammalia un ipotetico uomo col suo “Vieni…”, a cui fra da controcanto – in un riecheggiar suggestivo – il: “Vieni…”, rimbalzato dalla Urban o le immagini – liriche: anche nel senso poetico del termine – del coro ad evocare soli purpurei di sangue e presaghi di abbracci ad arcobaleni, indici di una scrittura ricercata e attenta. E, al centro di tutto, quella mela d’oro – l’epico pomo della discordia… -, che troneggia, fulgida, per quasi tutto il tempo: sospesa a centro scena.

Eppure un dubbio resta : e se un’ anche minor dovizia di perizia avesse saputo suscitare una maggior partecipazione emotiva? Il testo – a tratti – risulta lento, per un pubblico forse non troppo imbevuto in tutti questi sofismi; e neppure la pur cristallina e cangiante policromia vocale della Russo Arman – né la versatile generosità della Urban – riescono – ancora – a stemperarne l’effetto.

Ma questo è solo il mio punto di vista; fino al sabato 9 novembre potrete ancora farvene un’idea propria: all’ Elfo Puccini.

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