Suggestioni di un Lorca ‘Uno, Nessuno, Centomila’

E’ questa, l’atmosfera del monologo portato in scena stasera, in una prova aperta, alla Fabbrica dell’Esperienza, dalla compagnia de La Madrugada: asciutta, severa, essenziale come quelle parole-sassi, sputate – nella primissima sequenza – dalla madre del poeta – ma un po’ anche Bernarda Alba: con la dura ferocia, che fu di quel personaggio, ma pure delle donne reali di quel mondo rurale ancestrale – sulla tomba di lui , scenicamente resa attraverso una lastra nera con incise – a caratteri bianchi – le date di nascita e morte. -Che strano: di solito sono le pietre tombali ad essere bianche, mentre in nero spesso compaiono le epigrafi… Chissà se quest’inversione da negativo fotografico non abbia, oltre ad un’indiscutibile valenza estetica, anche un più o meno recondito rimando semantico. Né è, questo, il solo caso in cui l’attrice – Roberta Secchi – si avvale del prezioso sussidio di ‘cartelli’ – di brechtiana memoria… -, su cui dar voce a quegli stralci di reale, che Lorca traduceva in versi, ogni qual volta il groviglio del suo cuore gli attanagliava le carni al punto da impedirgli di proferir verbo: e, forse, per evitar che sfuggissero, affidati alla volatilità della parola soffiata.

LORCA_ERAN_TUTTI

Una biografia di Lorca, quindi: di questo si tratta? Probabilmente solo in parte: perché, qui, l’autore ci vien raccontato secondo il suo proclama: “Non sono un politico, sono un poeta e, dunque, un rivoluzionario come tutti i poeti…”, quasi che ‘non importasse’ tanto ‘lui’ – nella sua specificità individuale -, quanto, invece, nel suo essere sussumibile sotto una categoria più universale: che sia poi quella di ‘vittima del fascismo spagnolo di quegli anni’ o del ‘poeta/coscienza critica e sociale’ dei suoi tempi, poco conta. Ed è ben del suo impegno, che ci vien detto: impegno civile, anzitutto, oltre che umano; e delle sue cifre: i coltelli, che non ha mai saputo impugnare dal verso giusto – tanto da usarli per ‘scrivere’: nella scena, ad esempio, in cui diventano i due oggetti contundenti, tramite cui vien riprodotto il ticchettio del telegrafo… -, i cavalli – simbolo di libertà, ma anche della corsa sfrenata verso l’abisso – e pure quell’ostinato verde – chissà: forse la tinta della speranza… – a colorare i suoi giorni, spezzando, in scena, l’altrimenti bicromia di bianco e nero.

Un lavoro ben fatto, dunque: agito più per suggestioni che per testimonianze, ma dove risulta subito evidente che, le prime, altro non sono che una sintetica sublimazione di un corposo ed attento lavoro di ricerca, che ha poi saputo riversarsi a più livelli: quello drammaturgico , certo – ci son chicche assolute come il racconto dell’agnello, ‘petalo di tenerezza’, venuto a brucar ai piedi del poeta e divorato, sotto il suo sguardo sgomento, da un gruppo di maiali neri sopraggiunti: che non può non far pensare ad una prefigurazione della sorte che gli sarebbe toccata di lì a poco; o alla metafora di quei porci che fanno teatro e per i quali fanno il teatro… -, ma pure scenografico – c’è tutto, negli occhi della testa di cavallo, ad esempio: lo sguardo imbizzarrito di occhi che sembrano ruotare senza posa, all’interno di una vertigine fobica – oltre che attoriale.

E, come tutti i lavori teatrali ‘ben fatti’ – specie su versanti di ricerca sconfinati -, non si prefigge di assurgere in cattedra ad impartir l’umano scibile per quell’ambito, ma – al contrario – di suscitar domande – curiosità intellettuali – più che fornir risposte pretenziosamente esaustive.

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