Visto a Teatro

Milano Off 2025 e quelle inascoltate voci di Filumène Dissonorate

Appena concluso il primo week end lungo della settima edizione di Milano Off Fringe Festival, cosa ne rimane dei 33 spettacoli in 132 repliche, che, a rotazione, da giovedì a domenica, hanno animato 19 spazi diffusi per la città? Di certo, una grande eco di fermento, partecipazione e inclusione di pubblici anche “non tradizionali”, in questo primo week end – dal 2 al 5 ottobre 2025 -, grazie a tutta una serie d’ iniziative pensate ad hoc, fra cui, solo per citarne un paio, le giurie popolari, di studenti e non, e la felice iniziativa “Ospita un artista” a creare un’autentica contiguità fra le due côté del proscenio.

Milano Off Fringe Festival

Impossibile seguire e scriverne, di tutti questi spettacoli. La nostra scelta, pensata, è caduta su due pièce dalla curiosa risonanza: “Dissonorata” di Saverio La Ruina nella messa in scena della francese Compagnie Premier Acte – già perché, fra le precipuità di Milano Off, c’è la presenza di spettacoli in lingua e giocati da compagnie effettivamente provenienti da altri Paesi – e “Fuje Filumena” di e con Peppe Fonzo – anche questa, a suo modo un omaggio: nelle intenzioni, alla “Filumena Marturano” di Eduardo, ma non solo…

Da “Dissonorata” di Saverio La Ruina a “Desohonorée” di Compagnie Premier Acte

Chi l’abbia vista, non può non aver amato la “Dissonorata” di e con Saverio La Ruina, monologo a suo modo intimistico. Una donna non più giovane, interpretata dallo stesso La Ruina, con tanto di vestaglietta da casa, come ancora usa in certi paesini del sud Italia, impacciata, su una sedia di paglia, bisbiglia la sua storia di sopravvissuta alle leggi del branco della sottocultura patriarcale – con tutta la rassegnazione e, in fondo, la disarmante dolcezza, di chi ne è uscita viva, nonostante tutto. Colpisce, qui, l’immobilità di un tempo senza tempo e lo sconcertante ossimoro fra l’atrocità del fatto raccontato e la pacatezza del cunto, quasi a significarne la “normalità”, in quel contesto.

Nella riedizione della giovane compagnia francese Premier Act, andata in scena a IsolaCasa Teatro, dal 2 al 5 ottobre, tutto ciò si accende di una freschezza e vivacità inedite. Giocata intrecciando italiano e francese – e qualche parola di dialetto calabro e preziose strofe di canzoni popolari siciliane, cristalline e flautate nell’intonazione dell’attrice -, “Dissonorata/Desohonorée” ripercorre le vicende di Pasqualina in quel mondo rurale e retrogrado.

Felice, la proiezione, in italiano, dei passaggi salienti – in termini di riflessione/denuncia sulla condizione di sottomissione delle donne in quel contesto – sull’impietoso pallore delle pareti spoglie: intanto sicuramente ne assicura la comprensione; inevitabile, poi, quell’eco brechtiana, che immediatamente dice impegno civile.

Di non minor efficacie è la presenza quasi costante di un tappeto musicale – lo snocciolarsi delle note di un pianoforte, ora, ora il palpitar dei mandolini – a dar maggior costrutto ed efficacia a quella lingua così straordinariamente scarna ed essenziale, pur nel rincorrersi di francese e italiano, che sembrano far rimbalzare, nella ripetizione, gli stigmi più atroci. Efficace anche la scenografia, giocata fra elementi prosaici, ma scelti con una tal cura, da farli immediatamente rilucere dei loro portati simbolici, che, nonostante la fatica della lingua, ci proiettano au milieu di quella storia.

Bravissima, poi, Sofia Di Tommaso: intensa, evocativa, dai tempi perfetti e dalla mimica, specie facciale, straordinaria. Sembrava di poterlo vedere distintamente, anche solo attraverso il semplice roteare dei suoi occhioni vivacissimi, tutto quello che il personaggio andava rievocando. Certamente un piglio diverso, quello di questa Deshonorée jeune, che se pure, come da copione, recalcitra e si dispera per il suo stato di vieille fille – zitellona, nella dicitura originaria -, la sprizza da tutti i pori, la sua incontenibile giovinezza! E, questo, sposta il focus del racconto: dall’à rebours dell’amarcord di Saverio La Ruina, alla presa diretta di una carne viva e fremente, che, nonostante tutto, non può non aprirsi alla vita.

“Fuje Filumena” di e con Peppe Fonzo

Altra storia a suo modo al femminile, quanto meno nell’illustre antecedente a cui fa esplicito riferimento, è “Fuje Filumena” di e con Peppe Fonzo, andata in scena ad Argòmm Teatro dal 2 al 5 ottobre. Come nell’eduardiana “Filumena Marturano”, anche qui c’è lo stigma dell’egoismo ipocrita e delirante di vite sacrificate sul laicissimo altare del tutto per bene di una società moralistica e conformista. Complice, forse, l’eco partenopea di Annibale Ruccello o l’intramontabile ira funesta di Medea, qui, l’autore ha il coraggio di spingersi negli anfratti di situazioni ancor più scabrose: e ancor più atroce e sottile sarà la sua vendetta.

L’inizio è in sordina – una voce fuori campo allude ad una banalissima chiacchiera telefonica a proposito di usualissimi vissuti. Eppure, già all’apparire in scena, la si percepisce subito, un’anomalia latente, che immediatamente cortocircuita, disponendoci a un’altra verità.

Comincia così, la narrazione di questa Filumena, che non è uomo e non è donna eppure è sia donna che uomo, dirà di sé, con le più argute e allusive perifrasi del vivacissimo dialetto partenopeo. Comincia così, lo scoppiettante sciorinio della sua storia – fra un’ammissione di colpa e una provocatoria richiesta di giudizio, così sfacciata, da raggelare. Non meno disturbante, del resto, sarà restare ad ascoltarne il suo viaggio iniziatico, a soli 13 anni, nel mondo della prostituzione e, poi, la sua vita da protetta del boss mafioso del paese. Una partitura millimetrica, che riesce a tenere insieme leggerezza e disincanto, ruvidezza e sogno, abuso e consenso – come solo nel bivalente e complicatissimo pàs-a-deux vittima/carnefice può succedere.

Splendido equilibrista si rivela Peppe Fondo, autore del monologo. Efficacemente distilla l’impalcatura dell’opera di Eduardo, trasfigurandola in un contemporaneità a noi più vicina ergo fruibile. Ne scarnificarne gli svincoli nodali (solenni come campane a morto cadono quei così, così, cosi o la celeberrima: “Facciamo finta di volerci bene…” o, ancora, la vicenda della banconota, che, inevitabilmente, qui, deve assumere una valenza triplice e traslata).

Un po’ Ruccello, un po’ Medea, si diceva, con prosaicissima grazia riesce a raccontarci l’indicibile. È la Napoli dei femminielli e di chi, le cose, deve farsele scivolare addosso, per non restarne sfigurato; è l’ironia, di chi non si scusa, ma sfrontatamente affonda il colpo col suo linguaggio autentico e verace. Ma, soprattutto, è un attore capace di trasfigurarsi attraverso quel suo personaggio, capace di andare avanti a testa ostentatamente alta, di fronte a quel bluff, che lui solo sa essere tale. Perché, come lui stesso canta, generosamente congelandosi dal pubblico con un improvvisato Modugno: “Tutto il mio folle amore/lo soffia il cielo…”

In attesa dei 27 spettacoli, che animeranno altri 19 spazi diffusi per Milano nel prossimo week end meneghino, dal 9 al 12 ottobre, per chi potesse, l’appuntamento è dal 16 al 26 ottobre 2025 al Catania Off Fringe Festival, manifestazione gemella, dove saranno di nuovo in scena tutti gli spettacoli. Per chi li avesse mancati, anche “Dissonorata” e“Fuje Filumena”.