Una Vasini stralunata e versatile fra Gratitudini e vecchie Balere

In scena nel giro di pochi giorni, su due differenti palchi milanesi, Lucia Vasini mostra tutta la versatilità, la forza, la tenacia, la generosità e la professionalità di una vita dedicata al gioco teatrale. Gli spettacoli in questione? “Le Gratitudini”, al Teatro Parenti di Milano, dal 13 al 18 maggio 2025, e, a seguire, “Nuova Balera Pizzigoni”, al Teatro Menotti, dal 25 al 30 di quello stesso mese. E se anche ben differenti sono le temperie delle due storie narrate, minimo comun denominatore, però, è una qual certa struggente dolenza, tipica di ciò che, suo malgrado, inevitabilmente finisce…

Le gratitudini”

Volteggia leggero come un fiocco di neve impalpabile, “Le Gratitudini”, per poi posarsi caustico – ustionante come ghiaccio bollente. Ha la tenerezza del balbettio sgangherato dei bambini, quando provano a pronunciare le prime parole e l’afasia sorda e ostinata di chi quelle stesse parole non le padroneggia più. Ha la civetteria delle donne anziane – citazione dal testo -, che ancora si vestono con cura, quando aspettano ospiti, scegliendo il maglioncino celeste, che s’intona col colore degli occhi. E ha la pudica reticenza di sentimenti così intimi e profondi, da non poter essere detti. Giocato fra un: “Bisogna nascondere qualcosa per essere liberi..” e un: “La vecchiaia serve per imparare e perdere”, lo racconta in modo emozionale e ineffabile, l’affastagliarsi di Storia e storie di persone in fondo ingabbiate nelle proprie ferite e vulnerabilità. Giocato fra afasie, che svelano lapsus certo più profondi… e, allora: “Fa pena” è l’amaro modo per dire: “Va bene” da parte di chi non può che farsela andar bene – e quel: “Grasse” al posto di “Grazie” è la sincera summa del pubblico plaudente al generoso dono di Lucia Vasini, Paolo Triestino (anche alla regia), Pierluigi Corallo e Valentina Bartolo”. Così, scrivevo, a caldo, uscendo da teatro, in quel mio tacito rituale non petito di dar voce agli applausi della serata, corredando i video con poche righe, capaci di raggiungere certo un pubblico molto più vasto di queste riflessioni a freddo.

E, però, placato il tempo della commozione, quant’ancora importante è, tornare su quell’emozioni, per ripercorrerne le trame – drammaturgiche, registiche e attorali. Quant’è doveroso, vitale e vivificante restituire giustizia e spessore all’evanescenza, che il teatro per sua natura è – specie quando ci scivoli in cuore con una naturalezza tale, da disarmare la mente, declinandosi ipso facto in memoria. E la partitura drammaturgica de “Le Gratitudini”, adattamento e regia Paolo Triestino  dal romanzo di Delphine de Vigan, racconta di un gioco di gabbie (versatile elemento scenografico a comporre oggetti e ricordi, dal rigore algido così preciso e funzionale, pur nel suo essere profondamente dissonante dal mood di quella storia). Già, perché quel che colpisce è che, pur trattandosi di una storia certo non facile – l’afasia della demenza con tutto il precipitato di chi non può accettarne l’onta dell’irreversibilità -, il registro è lieve.

Sembrano quasi usciti da un film con Robin Williams, il logopedista Jérôme (un Pierluigi Corallo in odore di Patch Adams) e la stessa protagonista Michka (Lucia Vasini, che, uscendo di sala, ho sentito raffrontare a Mrs.Doubtfire). E, in fondo proprio questa è la forza della trama: la capacità di trasfigurare il dramma, fino a riuscire a far sorridere, senza per questo nulla togliere allo spessore e al rispetto per questa e per le storie parallele (di fuga, di guerra, di rastrellamenti e nascondigli… e poi, di nuovo, di salvezza, ricevuta e donata, in momenti diversi della vita). Una storia, i cui protagonisti sembrano burlarsi delle loro vicissitudini, ma dall’epilogo rivelatore di ben altri intenti e sotto testi. Una storia sorprendente come lo è tutto ciò, che sceglie non di gridare, ma di sussurrare e sorridere – che è il solo modo per costringere ad essere ascoltati davvero -, agita da attori capaci e a servizio – questo, lo si percepisce in modo evidente – di qualcosa di più grande di loro. Così, in questo spettacolo, è la nota quasi comica e surreale della Vasini, la grazia impalpabile, su cui sembrano consuonare gli altri attori – dal già citato logopedista Jérôme/Pierluigi Corallo alla figlia d’anima Valentina Bartolo e allo stesso regista Paolo Triestino, che ritaglia per sé cammei quasi alla cartoon, che ben si sposano con la mente della protagonista bambina, nei ricordi, e confusa, negli incubi senili. E, così, l’epilogo forse più tragico di quanto le parole abbiano il pudore di tacere, scende non meno lieve e, a suo modo, conciliatore come la naturale fine di tutto ciò che abbia avuto principio.

Nuova Balera Pizzigoni”

Tutt’altra temperie si respira nella “Nuova Balera Pizzigoni”, scritto e diretto da Emilio Russo, liberamente ispirato a “Ballando, ballando” di Ettore Scola; eppure anche qui la neve c’è, espressamente citata nell’incipit a ricordare la nevicata del 1985.

Nuova Balera Pizzigoni” di Emilio Russo ci avvolge come la neve della nevicata del 1985 – “fatta di niente – dice una delle voci narranti – eppure capace delle architetture più inaspettate”. Fatta di musica e amarcord, rivalità e rivalse, leggerezza e tutto il peso di un mondo che non vuol arrendersi al suo essere forse un poco anacronistico, ci avvolge con la nebbia dei ricordi, travolgendoci con la sua voglia di ballare. E non importa se “questo non è un ambiente sofisticato”, dice, un’altra delle voci narranti: la storia, che racconta, parla della voglia di non arrendersi, conformandosi ad un mondo, che ci vorrebbe tutti spersonalizzati e identici… ergo, in fondo, intercambiabili. E invece qui si rivendica la bellezza dell’essere come si è, in un mondo, che forse non è quel che sembra, ma che sa regalare momenti di inaspettata autentica (r)esistenza. E poi, con cast del genere – Lucia Vasini, Sara Bertelà, Enrico Ballardini, ma anche Emilia Scatigno e Alessandro Sampaoli e poi i musicisti in scena e i ballerini – non poteva che catturare il pubblico, coinvolgendolo nella sua festosa e strabordante invasione di campo”, scrivevo, nelle mie righe a caldo, uscendo da teatro. E se anche la trama – e, in qualche modo, l’ambizione – qui è diversa – nessun intento di sensibilizzazione sociale, se non forse quello, amarcord, di rivendicare l’importanza di spazi e mondi, che probabilmente non avranno fatto la Storia, ma di certo hanno intessuto le trame delle piccole storie individuali di molti -, di non minor efficacia è il risultato.

Come in un implacabile ballo di danzatori posseduti da invisibili scarpette rosse, gli attori, i musici, danzatori, coreografie, scenografie, atmosfere e canzoni instancabilmente si muovono al ritmo ipnotico della strobosfera – che, con le sue mille facce a specchio, impietosa saetta con casuali abbagli di luce un pubblico, che non può non sentirsi chiamato in causa. Anche qui: è la storia di una famiglia, quella che ci vien raccontata – e, anche in questo caso, il concetto di famiglia non sempre viene declinato nell’accezione più usuale e pacificante del termine… Eppure non mancano l’occasione o lo spazio per far riverberare la Grande Storia, in queste piccole storie ignobili, per dirla alla Guccini – ma con tutto il peso e la prosaica assoluzione del caso. Come quella volta che… nonostante il veto del fascismo, la balera non accettò di chiudere – o come quell’altra volta che… quel remoto paesino sul Lambro, nonostante il Lambro non passasse da lì, si trasformò in una nostrana Hamelin. E, a farla da Pifferaio Magico, anche qui par essere la nota stralunata e generosa di una Lucia Vasini, che non si risparmia – nell’incipit in solitaria come nella corale invasione di campo, a fine rappresentazione, in cui il palcoscenico si riversa in platea, coinvolgendo il pubblico nelle sue danze –, su cui ben si accordano le note non meno meravigliosamente stonate degli altri protagonisti di quest’umanità dolente, ma prepotentemente vera, nei suoi variegati e improbabili anacronismi. Un cast di co protagonisti come Enrico Ballardini (anche cantante), conciliante figliastro di quelle vicissitudini che, un tempo, facevano la famiglia allargata, Sara Bertelà e Emilia Scatigno (la storica e la nuova ballerina alias preferita del giovane Pizzigoni) e Alessandro Sampaoli, appunto, il bizzoso rampollo di quel mondo a un passo dallo scomparire.

E se due spettacoli così diversi e lontani – eppure così riecheggianti – sono riusciti ad essere, ciascuno a suo modo, così struggentemente impalpabili, chissà che, davvero, non sia stata proprio la presenza della cifra unica di Lucia Vasini – forgiata, fra l’altro, alla scuola di giullarate di Dario Fo e Franca Rame -, rivelatasi capace di catalizzare le professionalità degli ottimi colleghi di palco e rifrangerle in quel miracolo di nienteeppure capace delle architetture più inaspettate –, che, oltre alla neve, di certo è il teatro.