“Stabat pater”: abbracciare l’abisso, senza precipitarvi mai

Vincitore de L’Italia dei Visionari Junior, interessantissima iniziativa di micro “Direzione Artistica” promossa da MTM Manifatture Teatrali Milanesi per avvicinare i giovani al teatro, “Stabat Pater. Viaggio tra padri combattenti”, coproduzione delle compagnie Alma Rosé e Sanpapié, ha meritatamente guadagnato il palcoscenico del Teatro Litta di Milano dal 10 al 12 novembre 2022.

L’Italia dei Visionari (Junior)

Ma cos’è, L’Italia dei Visionari? Il progetto originario nasce a Kilowatt Festival nel 2009, scommettendo sul coinvolgimento attivo degli spettatori nella scelta di alcuni spettacoli. Grazie al sostegno di Fondazione Cariplo, iniziativa analoga ha poi germinato anche a Milano, riuscendo a richiamare l’attenzione di una cinquantina di teatrofili entusiasti di aderire al bando. Sono stati i Visionari dei circa 200 filmati integrali di spettacoli teatrali a selezionare la rosa dei tre, che avrebbero guadagnato a pieno titolo un posto nella Stagione di Manifatture Teatrali Milanesi.

Fin da subito, questo più variegato pubblico è stato affiancato da una giuria di studenti delle scuole superiori, accompagnati in progetti di visione, discussione e votazione condivise. Insomma, una sorta di propedeutica alla Direzione Artistica atta a far conoscere e appassionare i più giovani al teatro, facendo toccar loro con mano le sue dinamiche.

“Stabat pater” Premio Visionari MTM Teatro

La motivazione della scelta

Esito di questo percorso junior della scorsa edizione è stata la sorprendente scelta di uno spettacolo come “Stabat pater”, che, pur vedendo un poco più che adolescente in scena, di fatto tratta una tematica – quella della disabilità -, che non era così scontato venisse colta in maniera tanto attenta dai più giovani. Fra le motivazioni riportate dai ragazzi, infatti, non solo l’idea che un lavoro simile avrebbe potuto interessare trasversalmente un pubblico più vasto, ma anche tutta la sentita partecipazione per la straziante posizione umana di un padre, chiamato quotidianamente a far i conti con le montagne russe di un’esperienza del genere.

“Stabat pater”: un inizio spiazzante

“Z!”. La drammaturgia di Elena Lolli e Manuel Ferreira– quest’ultimo pure protagonista in scena nel ruolo del padre – inizia così. E, se anche poi il gioco è ad alleggerire, associandola a Zeta la Formica, non per questo viene meno la sua perentorietà. Quasi un dichiarazione: di quel che pensa il mondo, forse, o di tutta la frustrazione, che si deve provare un genitore nel vedersi consegnato un esserino tanto inconsapevole – e incolpevole! -, eppure foriero di un’esistenza, che deve parere averci tradito.

Gioele Cosentino

Fra beffa e rabbia…

E, così, la sfoga nella box, la sua rabbia, o nella beffa di fronte a quelle parole-aria fritta, attraverso cui i colleghi si lamentano di risibilissime quisquiglie o di appena menzionabili contrattempi – insignificanti, se paragonati alle sue quotidiane sfide. E la sublima in piccolissime gioie – quasi che la felicità fosse davvero il leopardiano intervallo fra due dolori -: il sollievo, ovvero le serate organizzate per dar ristoro ai genitori di ragazzi disabili o l’insensato ridere e le ingenuità di quel figlio, croce-e-delizia, a cui guarda con struggente tenerezza, nonostante tutto, in un dialogo, a fil di cuore e fitto fitto, che non smette mai di tenerlo legato a doppio filo.

…e insensata tenerezza

Eppure non c’è disperazione, in quel padre. Fin dall’inizio dello spettacolo, lo guarda contorcersi e vocalizzare quasi fosse davvero come una formichina caduta sulla schiena, che ce la mettesse tutta per rialzarsi. E mentre lo straordinario danzatore Gioele Cosentinoinstancabile nel lavoro fisico, accuratamente coreografato da Lara Guidetti, per l’intera durata dell’atto unico non smette neppure per un istante quel suo disturbante moto perpetuo, è il padre a raccontargli – e a raccontarci – le difficoltà, le frustrazioni, la rabbia, la fatica, ma anche la felicità – insensata! e la tenerezza di chi si trovi, lui malgrado, invischiato in un qualcosa che grida atrocità e ribellione. Eppure c’è bellezza, confida al figlio – nonostante la paura – ad essere esattamente lì.

Accettazione tragica…

E, forse, è proprio questo, quel che ci spiazza. Forse sarebbe più facile capire la rivolta e il rifiuto, il livore e fin’ anche la bestemmia – in controluce una sorta di ribaltamento de “Sul concetto di volto nel Figlio di Dio” di Romeo Castellucci -, piuttosto che questa prosa pacata, sussurrata, quasi, a quel figlio perso in una dimensione altra, ma a cura di cui il padre non cessa di prodigarsi, quasi fosse al fine lui, laboriosa formichina attorno a quel formicaio-santuario, che è il figlio.

…e dramma dell’incomunicabilità

Già, perché, in fondo, ciò che pare pesare di più, a questo padre, è proprio il dramma dell’incomunicabilità – come di fronte a qualsiasi Altro o Ignoto. Certo, pure la fatica – anche fisica – dell’accudimento: le notti insonni, i graffi, i morsi, esiti forse di movimenti inconsulti, e quel “tutto da rifare”, che ben conosce chi ha bimbi piccoli e dotati di quell’imponderabile tempismo dell’ultimo istante, capace di mandare all’aria la più studiata tabella di marcia.

E, però, forse ancor di più pesa proprio quella mancanza di reciprocità e riconoscimento, senza cui nessun rapporto può dirsi tale e che rende la sua fatica ancor più titanica – e, per ciò stesso, apparentemente vana (frustra, si direbbe in latino: da cui la voce frustrante). Ed è intuizione folgorante il raccontarci tutto questo attraverso un monologo, che, di fatto, altro non è che il solo esito possibile di questo dialogo negato fra padre e figlio.

Eco titaniche e cristologiche

Un po’ Prometeo (ma anche Sisifo) e un po’ Giobbe (ma anche Qohèlet), questo padre è segnato dalla sua pazienza fino al punto estremo di un’ostinazione insensata ed invincibile. La ben calibrata regia di Claudio Orlandini lo muove in un scena in spazi vuoti, disegnati da fasci di luce, ora diretta ora smorzata, quasi a restituirci la condanna alla bipolarità della sua condizione.

Eppure sembra prevalere non tanto il lieto fine – non è questo: che, di lieto, in tutto ciò, c’è davvero poco… -, quanto, forse, quella serenità-nonostante-tutto, che può scaturire solo dalla consapevolezza e da un’accettazione, che non sia resa, ma presa in carico attiva del proprio destino.

Ecco, forse è questo, ciò che rende quasi messianico e cristologico questo spettacolo: e tragico – nel senso di capace di guardare in faccia ciò che è, assumendolo su di sé e percorrendolo fino alle conseguenze estreme –, pur senza mai precipitare nell’abisso.