Quando Bernhard si fa prova d’attore

Un lunghissimo a parte, un guizzante flusso di coscienza o una di quelle confessioni, che si fatica ad affidare perfino a se stessi. Ecco come si pone “Il nipote di Wittgenstein” di Thomas Bernhard, al Piccolo Teatro di Milano dal 27 novembre al 22 dicembre 2019.

Sulla scena un uomo, non più giovane ed eteronimo letterario dello stesso autore.

Ripercorre i dodici anni di amicizia con quello che definisce l’unico individuo di sesso maschile, che ho sopportato per un periodo di tempo non brevissimo e al quale non avrei mai voluto rinunciare […] l’unico individuo di sesso maschile, con cui in vita mia sia riuscito ad avere una conversazione come si deve, un tema in comune, non importa di che natura o arduo finché si vuole… E quell’unico individuo di sesso maschile è Paul Wittgenstein, nipote del celeberrimo filosofo Ludwig e, come lui, similmente stigmatizzato come il matto di famiglia da quella ricca casata della borghesia industriale austriaca.

Siamo in un austero salotto della metà del ‘900. L’opera, pubblicata nel 1982, tradotta in Italiano solo nell’89 e già portata in scena dallo stesso Orsini nel 1991, è ambienta nel 1967.

È qui che Bernhard/Orsini sciorina quella che di fatto è un’orazione funebre.

Un tributo all’amico di fronte alla cui fine non aveva saputo resistere dal fuggire.

Evitiamo gli uomini segnati dalla morte ed io pure ho ceduto a quest’infamia. Durante gli ultimi mesi della sua vita – confessa -, ho consapevolmente evitato il mio amico per ubbidire a un basso istinto di autoconservazione, e questo non me lo perdono”. Ed è come se solo con questo atto estremo finalmente adempisse al suo dovere.

Glielo aveva chiesto lo stesso Wittgenstein ormai prossimo alla morte: tenere il suo elogio funebre di fronte ai duecento amici, così immaginava, che sarebbero accorsi al suo funerale. Di fatto furono solo otto. Neppure lui c’era, in quanto a quel tempo a Creta a comporre una pièce, che poi distrusse.

Questa lunghissima orazione diventa occasione per tirare le somme.

Come spesso capita quando la vita ci infligge uno di quei colpi che ci costringe a fermarci, dopo un primo, reattivo e quasi fisiologico moto di fuga, ecco la battuta d’arresto, sovente occasione di profonda riflessione e messa in discussione.

È esattamente qui, seduto, in composti abiti da camera, sulla poltrona della sua casa di campagna, che “ci accoglie” il protagonista – che poi, via via, muterà d’abito per trasformarsi prima nel grottesco riscossore di un premio farsa e, poi di nuovo, fino a trasformarsi, alla fine, nel forse pacificato stesso autore.

L’incipit sul suo ricovero all’ospedale viennese, per la rimozione di un tumore che gli stessi medici giudicavano gli sarebbe stato comunque fatale, è solo il pretesto per introdurre l’altro. Il mio amico Paul era ricoverato duecento metri più in là, nel padiglione Ludwig, il quale, però […] non apparteneva al padiglione di pneumologia, […] bensì al manicomio Am Steinhof.

A unirli, oltre al singolare ma significativo caso di essere ricoverati sempre insieme, seppure in padiglioni attigui, ma per patologie differenti, sono l’amore per la musica, ma anche quella analoga visione del mondo e quella profonda corrispondenza, che glielo rese amico.

Una scrittura, quella di Bernhard, serrata, corposa e sintatticamente ardita.

Attraverso questa modalità, il Bernhard autore sceglie di raccontarci il recto e il verso di due personalità che, più che differenti, opportuno sarebbe definire dalla differente auto gestione.

Lo racconta splendidamente attraverso la metafora della mente/finestra.

Racconta di come, in preda alla fase maniacale del suo disturbo, l’amico sperperasse ingenti fortune.

Ma mentre le sue ricchezze materiali erano state ben presto gettate tutte quante fuori dalla finestra e si erano perciò completamente esaurite, le sue ricchezze intellettuali si erano rivelate veramente inesauribili […] essendo in effetti la caratteristica di questi individui, inizialmente definiti pazzi e poi alienati mentali, quella di gettare incessantemente e sempre di più le loro ricchezze spirituali fuori dalla finestra (della loro mente), mentre queste ricchezze spirituali, con la stessa velocità con cui essi le gettano dalla finestra (della loro mente) si moltiplicano e si accrescono nella loro stessa mente. Lui, no: a differenza dell’amico, lui aveva saputo proteggersi – il cuore e il patrimonio -, grazie alla capacità di vedere, dietro al bambino messo a bella posta dalla madre e commuovere i passanti, il di lei cinico calcolo. Né manca l’occasione per citare Nietzsche – E così che la mente di Paul è esplosa, per il semplice fatto che lui non è più riuscito, via via, a gettare fuori dalla finestra (della sua mente) le ricchezze del suo spirito. Per lo stesso motivo è esplosa altresì la mente di Nietzsche – o il per altro verso matto di famiglia Ludwig, entrambi capri espiatori delle malefatte di quei Wittgenstein, che per un secolo […] hanno prodotto armi e macchinari, e poi alla fine, per coronare il tutto, hanno prodotto Ludwig e Paul, il celebre, epocale filosofo e il pazzo, a Vienna almeno altrettanto celebre se non perfino più celebre dell’altro.

Una regia, quella di Patrick Guinand, che si affida alla prova d’attore.

In scena un ultraottantenne, ma ancora iper performativo Umberto Orsini, che, a distanza di quasi trent’anni da quel 1991, si esibisce in una profusione da virtuoso dell’acrobazia della parola.

Quasi nulla attorno a lui, se non pochi e piuttosto prevedibili oggetti con cui interagire al bisogno e il ruolo quasi solo di servizio di Elisabetta Piccolomini a movimentare l’azione e lo spazio – una scenografia essenziale, pur nella citazione realista. Quasi nulla attorno a lui, ma è proprio nelle sue rocambolesche impennate e nelle accelerazioni, nei repentini rallentamenti fino alla stasi, che si gioca una partitura sonora certo affascinante, ma non sempre così funzionale.

Certo occorreva trovare un modo per rendere dicibili queste frasi spericolate, lunghe svariate righe e fatte di incisi, di ritorni su se stesse a volte solo per invertire un paio di termini, sortendone un sorprendente spostamento semantico. Eppure, in tutto questo strabordare, se si rimane certo impressionati dalla lusinga della partitura sonora – e impressionati dal virtuoso lavoro mnemonico e di dicitura, solo a tratti “sporcata” da una scansione non sempre perfetta -, si rischia però di vedersi scorrer via i più caustici momenti di critica sociale e politica al sistema di un autore che fu tacciato non solo di essere un esterofilo, ma addirittura un Nestbeschmutzer ovvero ‘sporca nido’.

Perché non è lo stesso sciorinare, in modo ironico ed esilarante, le migliaia di chilometri macinati alla ricerca di una certa rivista – per poi stoccare con un affondo contro il becero provincialismo dell’Austria – o il mitragliare, fra il serio e il faceto, a proposito della serie di elettroshock di cui, una volta dimesso dallo Steinhof, mi fece un dettagliato resoconto, non privo peraltro di ironia e sarcasmo, che non trascurava tutto ciò che questi elettroshock avevano di efferato, di volgare, di mortificante, e dunque di disumano.