Le Nuvole di Amleto volano nel cielo di Barba
Bisognerebbe essere così. A un soffio dai 90 anni, Eugenio Barba, che nel lontano 1965 fondò l’Odin Teatret quale filiale eppur autonoma costola dell’esperienza teatrale di Grotowski, ci regala uno spettacolo eccellente, dalle suggestioni poliedriche e dalle non meno stratificate implicazioni.
Non semplicemente una destrutturazione della celeberrima tragedia shakespeariana, questo “Le nuvole di Amleto”, in scena al Teatro Menotti di Milano dal 7 all’11 maggio 2025. Una lente, piuttosto, attraverso cui deformare, sì, ma per poterla poi guardare in faccia, in tutta la sua impietosa minuziosa complessità, quell’opera d’arte luminosa, che è l’essere umano – autentico oggetto d’interesse di un teatro filosofico, come quello del Bardo, e interculturale, come quello di Barba.
Shakespeare vanificato demiurgo intergenerazionale
Certo, non è facile condensare in poco più di un’ora l’intero dramma shakespeariano; del resto, non è questa l’ambizione. La suggestione, piuttosto, sembra esser quella di uno Shakespeare vanificato demiurgo intergenerazionale. Colpito, nel volger di un solo lustro, dalla prematura morte del figlioletto Hamnet e, poi, del padre John, William reagì nella sola maniera, che gli fosse possibile: scrivendo. “Nuvole di parole mi assalgono nel momento del pianto”, gli fa dire Barba . Eccola, la genesi di quell’“Amleto”, tragedia totale, in cui la sola cosa, che paia sopravvivere, non a caso è la memoria. Ed ecco che Barba, giocando a intersecare i piani della biografia del drammaturgo con quelli del suo stesso eroe tragico, ci catapulta in un monstrum fisico, onirico e sonoro dai contorni deformanti.
Stratificazione simbolica dei protagonisti
Voce narrante e narratore in scena – gran burattinaio dolente, alla Prospero, come lui in fondo vittima dei suoi stessi fantasmi -, è un William Shakespeare dal volto azzurro come quello del dio Sciva dopo aver ingoiato il veleno per proteggere il creato. Interpretato da Julia Varley, capovolgendolo, sembra farsi beffa del costume del tempo di affidare a uomini anche i ruoli femminili. O, forse, questa scelta allude allo spirito di sacrificio, ma anche capacità di salvaguardia e custodia, precipue di certe figure femminili dalla vocazionalità ancillare.

Coprotagonista è Amleto. Giovane – come lo vuole l’iconografia -, le sue movenze oscillano fra quelle del figlio ferito, del tenero amante di un’altrettanto dolce e folle Ofelia e quelle di un gallo prestante. Impossibile non pensare al mitologico Alektruon, fedele compagno di Apollo/Elios, il cui compito era, appunto, quello di svegliare il dio, quando si fosse addormentato fra le braccia dell’amata, mettendo a repentaglio l’ordine costituito delle cose, che era chiamato a preservare. E non è, questo, in fondo, il dramma del giovane principe: il non potersi concedere ai suoi interessi filosofici e all’amore della sua donna, in quanto investito da un fal destino di comando – e di vendetta, nel suo caso? “È il mio sogno, ed è il mio incubo”, parafrasa, accarezzando la più estrema delle scappatoie, quest’Amleto impazzito – chissà se per sola strategia o non anche, come lo stesso Bardo, per doloroso impotente strazio -, trascinando il pubblico in una perfomance totale. Sono i corpi, dalla prossemica millimetrica e dalla generosa e indomita e lungamente esercitata energia vitale, spesa in scena anche dagli attori plus agés; sì, ma è anche l’attenzione al dispiegarsi di una vocalità studiata e allenata, che riecheggia sonorità, gutturali, ora, e ora stridule, dal brivido quasi ancestrale. E poi balli vorticosi, impazzar di tamurriate e sviolinate si alternano a momenti cupi dalla solennità quasi ieratica e certo emotivamente impattanti. E poi le proiezioni – fulminee e inaspettate riemersioni in un hic et nuc storico e dolorosamente scomodo – e quel libro/specchio, che, in ossequio ad uno dei cardini dell’Odin Teatret pensiero, non ci lascia spettatori inermi, comodamente adagiati nelle nostre poltrone, al di là della quarta parete, ma ci chiama in causa, corresponsabili di quel rito laico, che è il teatro – con le sue implicazioni etiche, politiche e sociali.
Shakespeare allo specchio
È stupefacente come, in quest’allestimento dell’Odin Teatret, il punto di vista, pur prepotentemente amletico, risulti altrettanto shakespeariano – investendo l’uomo Shakespeare. Le copiose scene di allusione alle licenziose effusioni fra Claudio e Gertrude, ad esempio, provocano il medesimo sdegno nel figlio ferito come nel padre/Re Amleto, la lugubre e costante presenza del cui fantasma, parimenti sgomento, ulula e strilla di fronte al tradimento. Ma è lo stesso Shakespeare, quel padre straziato: invischiato nel rivendicar giustizia, evoca la vendetta attraverso nuvole di parole, di fronte al sogno infranto del figlio solo undicenne.
Barba dietro allo specchio
Eppure sembra esserci ancora un terzo asse di quadratura. Non solo il drammaturgo e la sua creatura, ma, poi, anche il regista. E, così, ecco la voce – filosofico/politica – di Barba, che non può esimersi dalla questione principe: “Morire… dormire… sognare, forse?”
Già, perché il punto non è morire. È una legge comune: chi vive deve morire”, ricorda, il Bardo, al giovane principe. In un estremo intento quasi auto consolatorio, lo sprona: “Spogliati, buon Amleto, di questo colore notturno […] Guarda il sole, il cielo e le sue nuvole. Non cercare nella polvere, il tuo nobile padre”. E se anche l’allusione pare essere escatologica, la lusinga è fortemente pragmatica: “Amleto, non inseguire le nuvole. Nascondono le stelle e poi svaniscono. Impara dalle nuvole a non soffocare il tuo pianto e a vendicare tuo padre”. Un’azione radicale, dunque, fino alle conseguenze estreme: “Mio padre aveva ragione. Debbo essere crudele solo per essere buono” è la battuta, che segue – e che lo sprofonda nel turbine della tragedia.
Le nuvole di Barba
Eppure, a suo modo, il maestro di Holstebro, una risposta alla lusinga nichilista, la fornisce già dall’incipit. Neppure il volo rapace dell’uccello sacro a Minerva, infatti, pare possa preservare le giovanissime vittime da morti scellerate. Sembra esser questo, infatti, il paradosso del pensiero hegeliano: che la filosofia plani solo a cose fatte – o che, Montale docebat, la Storia non riesca a insegnarci nulla. Ancora una volta, riecheggia la dostoevskijana eco: “che c’entrano i bambini?”
È questo, il senso degli impietosi filmati di guerra, che vedono coinvolti quegli stessi figlioletti fino a pochi fotogrammi prima disegnati gioiosi fra le braccia dei padri? Questo, nell’azione scenica ancora precedente, il senso delle loro agonie, sussunte in Hamnet, avvolto nel sudario funebre, accomodato nel suo lettino tombale e poi trascinato attraverso lo straziante strepito di un inconsolabile padre? L’ultimo quadro prima dei saluti vede Shakespeare ordinare a un Fortinbras, depositario della memoria, di tributare onori militari alle spoglie del principe. “Amleto si sarebbe mostrato veramente regale, se il suo momento fosse giunto. Salutino le nuvole il suo passaggio terreno” – che sembra rovesciare la provocazione del Grande Inquisitore: “Qualche spiritoso potrebbe dirmi che quel bambino sarebbe comunque cresciuto e avrebbe peccato, ma, come vedete, egli non è cresciuto, è stato dilaniato dai cani all’età di otto anni”.
C’è tutta la dolenza di Prospero, in questo chiusa quasi testamentaria, impalpabile e struggente come il sogno, che svanisce sul far del mattino. Eppure c’è ancora tutta integra, la maestria del teatrante, in quell’epilogo/captatio benevolentiae, in very Shakespeare’s style; c’è tutta integra, la voglia di esorcizzarlo, in quel grido finale dei personaggi, che turbinano attorno al fantasma di Re Amleto/Shakespeare Padre, quasi a scacciarne l’ombra sinistra. E mentre lo scroscio degli applausi, liberatorio e sentito, invano richiama in scena gli attori, folgorante si fa l’immagine della locandina. È il viso di pietra di un giovinetto, i suoi capelli castani […] sparsi nella terra: le sue orbite svuotate dal tempo, sono piene, però, di nuvole per sempre in volo.