In principio era la risata: Bämsemble Company e il Nuovo Teatro Civile

Per sole tre repliche e, per di più, in quello che, a Milano, è il ponte di San’Ambrogio – ovvero la prova generale di vacanze sulla neve e mercatini tradizionali -, dal 7 al 9 dicembre 2018, al Teatro Franco Parenti, ecco una chicca coraggiosa, autoproclamata dall’atto di auto fondazione a luci ancora spente: “Ridere è il grido della vita che vuole vivere”, è la risata che si perpetra nei secoli dei secoli. È “Salt. The Marvellous Puppet Show” per la regia di Jon Kellam col il prezioso lavoro di coreografie dei movimenti di Madeleine Dahm, scenografie di Andrea Cavarra, Zorba Officine Creative. È il primo spettacolo di Bämsemble Company, compagnia di teatro fisico popolare dal respiro ed estrazione internazionale (italiana, americana, tedesca, francese, messicana, nepalese, coreana e spagnola), che è riuscita riempire la Sala Grande nella serata della Prima della Scala.

Nella sala accanto, la seconda replica giornaliera di “Visite” di Teatro dei Gordi, altra giovane compagnia, in questo caso di matrice Accademia Teatrale Paolo Grassi. Così, mentre il capoluogo meneghino brulicava di avventori festanti a caccia del regalo di Natale perfetto, al Teatro Franco Parenti si respirava un’atmosfera sospesa… Come le bolle di sapone di Billy Bolla, che, accompagnato dalla fisarmonica di Matteo Curatella, in “The Bubbles Rock Show”, quello stesso pomeriggio ai Bagni Misteriosi, aveva parlato di qualcosa che accade, guarda caso, in una città dalle mura bianchissime.

Liberamente ispirato a “El Retablo de las maravillas” di Cervantes, “Salt. The Marvellous Puppet Show” gioca – nel senso più alto e reale del termine – con le paure, le ipocrisie e le auto menzogne di una società chiamata a farci i conti già quattro secoli or sono. Il plot dice di una sgangherata compagnia di teatranti – e, in quanto tali, fuori-dagli-schemi ergo diversi per antonomasia, oltre che, per antonomasia, apolidi e quindi ovunque stranieri –, che giungono in una misteriosa città dalle alte e bianchissime mura di sale. Replicheranno anche qui il loro imbroglio di uno spettacolo che, come i vestiti nuovi dell’Imperatore, non esiste, anche se lo venderanno a caro prezzo. Sono teatranti e quindi truffatori – sempre a proposito di stereotipi -, eppure nessuno potrà ammetterlo; nessuno a cui prima sia stato insufflato che chi non ha sangue puro (con riferimento ad una pretesa superiorità etnica dalla sinistra eco ariana) o è figlio di bastardo (famiglia, patria e religione, in filigrana al perbenismo borghese) non vedrà niente.

Quel che ne consegue è un meraviglioso vaudeville, una baruffa chiozzotta, che, alla Commedia dell’Arte, ruba la fisicità e la stereotipata bidimensionalità di personaggi cristallizzati in prototipi, mentre già strizza l’occhio ad una denuncia sociale feroce, grottesca e straniante, degna di Brecht – facce di biacca comprese. Sul palco, s’intravvedono appena i musicisti, creatori di un tappeto sonoro dal vivo, che è parte integrante della drammaturgia, nell’alternanza fra improbabili rumori di commento dall’effetto comico assicurato e vere e proprie colonne sonore. Ben visibili, invece, i tre teatrantila bella e temperamentosa Bijou,il Capocomico slavo Molière, suo Virgulto Creolo, come lo chiama lei, e il di lui fratellastro Sciccalino – nei loro essenziali abiti da circo contemporaneo, disegnati, come quelli invece spesso surreali e caricaturali dei notabili della città del Sale, dagli allievi dell’Accademia delle Belle Arti di Brera.

Affastellati in tre su una moto, i teatranti ci raccontano, quasi solo attraverso poco più che un gramelot e una partitura mimica amplificata dall’occhio di bue che li infilza a centro palco, la triangolazione delle relazioni fra loro, il casuale arrivo nelle vicinanza della città e l’ordito della truffa. Tutt’attorno il Governatore, la vedova del Fondatore della Città con le due figliole, il Predicatore del “dio Sale” e il politicante Benito, dal gustosissimo sleng romagnolo, col figlio Musci, promesso sposo di Juanita, la primogenita della Vedova, ma dalle tinte così ostinatamente grigie e dal silenzio tanto livido da farne già presagire il delirio di onnipotenza. Se ne stanno lì, seduti, in penombra, ai due lati del palco, quasi a mimetizzarsi in attesa della chiamata in scena. Sembra anche un curioso gioco caleidoscopico in cui, a turno, ciascuno è spettatore o attore. Ed è così anche per il pubblico, fra le cui poltrone in più d’ un’ occasione irrompe, questo giocoso e totalizzante atto di teatro, denuncia e inclusione.

La trama poi è facile da intuire: Bijou e il suo Virgulto Creolo sedurranno rispettivamente il Governatore e la Vedova del Fondatore della Città, ottenendo di vendere il loro costosissimo e Marvellous Puppet Show per celebrare le imminenti nozze dei rampolli, mentre saranno i personaggi minori da un lato Teresa, la secondogenita della Vedova, e Sciccalino, fratellastro di Molière, in una tenera e grottescamente comica liason adolescenziale, dall’altro l’odioso Musci, in delirio di profitto – a farsi coscienza esplicita fino alla deflagrazione tragica.

Nel mezzo un’ora e quarantacinque minuti di teatro dall’altissimo gradiente di fruibilità, godibilità, qualità, competenza e completezza a tutto tondo – recitazione, acrobatica, teatro di strada, canto, Commedia dell’Arte, drammaturgia, mimo, coreografia, lumino tecnica, scenografie, costumi, atmosfere –, sciorinato con una leggerezza, che – citando Calvino – non è superficialità , ma davvero riesce a planare sulle cose dall’alto, senza avere macigni sul cuore… né peli sulla lingua, come Teresa e i tre teatranti docent. Sono loro a prendersi la libertà civile di gettare in aria inoffensivi coriandoli di verità quasi en passant (“Da una parte ci respingono, perché ci temono – spiega, il Virgulto Creolo, alla bella Bijou -, dall’altra non possono fare a meno di essere curiosi…”) o pungenti stoccate suicide, candide e necessarie come quel sale, che, lungi dall’essere arguzia, brucia ma conserva.

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Così, questa Città del Sale, ma di cui nessuno conosce il nome – chissà, forse perché dare un nome alle cose significa esplicitarle ed esprimerle e quindi legittimarle -, diventa potente metafora di una contemporaneità ipocrita e perbenista, dove l’altro, il diverso e per ciò stesso nemico non è detto che sia solo colui che viene da fuori.