Di morte e di felicità: Papageno vs Cane

Forse non è la stessa cosa vivere o sbirciare nella vita degli altri. Eppure uno dei motivi per cui continuiamo ad andare a teatro è cercare di superare i limiti spazio-temporali, ma poi anche inevitabilmente mentali e culturali, legati alla deiezione esistenziale. Già, perché ciascuno di noi è precipitato in un corpo e in tempo; ogni volta, dobbiamo fare i conti con quell’hic et nunc, che ci costringe a scegliere – e, ad ogni scelta, la vita prende una determinata piega. Forse non è propriamente il rimpianto, ma solo una specie di nostalgia o quanto meno la curiosità di vedere cosa avrebbe potuto essere in condizioni diverse o a partire da premesse, intenzioni, intuizioni, sensibilità, pensieri e pre-giudizi altri.

Ecco perché si va a teatro: per riempirsi gli occhi di tutti questi innumerabili mondi. Possibili, alcuni – non foss’ altro perché (sono stati) reali -; verosimili, altri – e, per alcuni, questo è criterio irrinunciabile. Di fatto, tutti appetibili con lo stesso trasporto con cui il bambino allunga la manina nel trepido desiderio di afferrare l’oggetto di fronte a sé per capire cosa sia.

Ed ecco perché mi piace accostare visioni – e poi restituire il mio sguardo – su spettacoli che portino in scena variazioni di uno stesso classico, ad esempio, o che trattino tematiche analoghe da diversi punti di vista. Così come non cogliere la sottile risonanza fra “Effetto Papageno” e “L’eternità dolcissima di Renato Cane”, in scena, a Milano, più o meno negli stessi giorni?

In comune tematiche affini: la morte, ma anche la malattia mentale o comunque quel sottile mal di vivere, che per alcuni sembra essere soltanto una circostanziata possibilità; per altri, un dispotico compagno di vita, che ci si appollaia sulle spalle per non lasciarci mai davvero.

Da giovedì 28 al 31 marzo 2019, in Prima Nazionale al Teatro Verdi di Milano, “Effetto Papageno” di Sofia Bolognini, Daniela D’Argenio Donati (performer in scena) e Michele M. A. Panella (alla regia). È l’autobiografia di una donna – in filigrana, le tappe salienti della storia degli ultimi cinquant’anni -, folgorata dal significato di Effetto Papageno. Ce lo racconta proprio lei, mentre snocciola la litania della sua vita a partire dalla festa dei diciott’anni di un’amica. Era quel 1969, in cui Armstrong sbarcava sulla Luna. A larghe falcate, arriva a questo Effetto Papageno, che, a tal punto l’avrebbe incuriosita, da farne, in opposizione all’Effetto Werther, l’oggetto della sua tesi di laurea in filosofia, ma anche il fil rouge di un’intera esistenza, resistenza al subdolo mal sottile del bipolarismo. Sulla carta, dunque, un progetto interessante, che mixa attualità, costume, informazione, memoria, ricerca di senso e sensibilizzazione verso tematiche – il disturbo mentale, nella fattispecie: ancor più strisciante nei casi border -, che proprio a partire da quegli anni iniziò ad essere preso di petto, guardato negli occhi, sdoganato (forse, ma di certo questo era l’intento) e restituito alla collettività come qualcosa che poteva e doveva essere gestito, anziché negato e segregato nei fortificati lager della damnatio memoriae. Nella messa in scena, di fatto, una serie di scelte, che inevitabilmente convergono verso poco più che una lezione spettacolo.

Così di tutto questo materiale potenzialmente incandescente, non resta che la spettacolarizzazione ad opera di un’attrice. (Complice, chissà, l’acerbità del debutto, in lei nulla di quella mattatrice, che, forse, avrebbe potuto far prendere il volo anche a questa soluzione registica). A luci di sala impietosamente accese e gigioneggiando con un pubblico coinvolto a reggerle il gioco da compiti distribuiti ante recita, una generosa, ma evidentemente fuori età scenica, Daniela D’Argenio Donati, instancabile scivola fra la donna matura che ripercorre, au rebour, le tappe della propria esistenza/disturbo e lei stessa, che si guarda da fuori, autorizzandosi a digressioni etimologiche, cliniche, psichiatriche, filosofiche o aneddotiche. Il risultato è quello della super narratrice, che la allontana, però, dal personaggio che vive, soffre, agisce e reagisce, nel saliscendi fra platea e palco, metafora dell’ altalenare bifasico fra iper maniacalità e depressione. Non mancano momenti forti – sia nel racconto, che nell’interpretazione -, pur bilanciati da una tagliente ironia tutta tosca, che prevale, per lo più, coinvolgendo gli spettatori, che volentieri si sono prestati a recitare le parti dei personaggi evocati dal racconto, e che sarebbero altrimenti rimasti senza (un) corpo.

E certamente questo è un modo per far arrivare un messaggio. Far sentire agli astanti che non siamo nello iato attore/pubblico separati dalla cortina della ribalta, ma che è proprio a fil di proscenio che può e deve avvenire l’incontro/reazione/contaminazione, capace di farci sentire parte di un medesimo tutto. Eppure quel che (mi) resta è la sensazione di un intento superiore alla resa, un po’ sfiorito e passato, come gli oggetti di scena – vintage -, usati per restituire l’effetto-realtà, E come lo sbandierato Effetto Papageno, che drammaturgicamente continua a sembrare più un pretesto colto che non l’effettivo oggetto del contendere, dal momento che quel che giustamente si racconta è che la malattia mentale non è una colpa (la depressione non è semplice pigrizia o voglia di far niente… è che sei talmente a pezzi che proprio non ce la fai), ma nulla si dice di quegli spiritelli che, come nel mozartiano “Il flauto magico”, avrebbero dovuto trarla in salvo. Perché se salvezza c’è stata (e questo, in effetti, è l’edificante messaggio conclusivo), pare sia più frutto di un Münchausen – e dallo stabilizzante supporto farmacologico: e, anche questo, è un messaggio positivo -, che non dalle figure del marito o dell’amico o, per certi versi, anche della figlia adolescente, pur comprensibilmente resa bisbetica dalle anomalie della madre (fino ai gesti estremi dei tentati suicidi). Così forse il limite è di non essere effettivamente riusciti a rendere leggero – nel senso in cui lo intendeva Italo Calvino – qualcosa che, più spesso, è stato solo sminuito a umorismo condiviso.

Tutt’altra temperie si respira, invece, ne “L’eternità dolcissima di Renato Cane” di Valentina Diana, regia di Vinicio Marchioni e con un metamorfico Marco Vergani, in scena la Teatro i, dal 27 marzo al 1 aprile 2019. Anche qui un personaggio – Renato Cane, appunto, il cui cognome ben si presta agli ironici guizzi della graffiante scrittura della Diana -, racconta, au rebour, la sua biografia.

Le luci sono spente, qui, e questo rinsalda il patto narrativo col pubblico, che, protetto dal buio, senza vergogna può fingere di credere alle più incredibili, grottesche, surreali delle trovate – e, fingendo, scivolare in una reale fascinazione consapevole. Di situazioni bizzarre, qui, ne sono evocate non poche. La scrittura sembra parafrasare il cortocircuitare dei ragionamenti basici dell’uomo della strada: li dispone in una costruzione paratattica elementare, sì, ma li rende capaci di quei guizzi e di quelle boutades, in cui il riso è l’incontenibile reazione ad un non sense, che sa ben travalicare la naïvité del personaggio. Non da meno è la regia, capace di scandire i pensieri, umori e sconnessioni di un omunculus così minuscolo, da non poter non risuonare con la parte più intima di ciascuno di noi (È lì che nascondiamo le nostre insicurezze più recondite, ma, chissà, fors’anche i più reconditi desideri). Lo fa attraverso intrusivi guizzi di felicità – le luci fucsia che occhieggiano all’improvviso e tutto è istantaneamente pervaso dalla voce morbida e totalizzante di Armstrong, che ci avvolge nel suo A wonderful world – calati come una Benedizione, questo, il nome del farmaco psicotropo di cui il protagonista è informatore scientifico, ovvero un modo “pettinato” per ironizzare sulla spregiudicatezza commerciale di un business, che tutto pare avere a cuore fuorché la reale salute del consumatore finale. E sono frequenti – e feroci! – le stoccate al business system: dal Kit ‘Spirito’, con cui il morituro Renato Cane s’indebita oltre l’inverosimile nella speranza di comprarsi l’eternità per l’anima, oltre che la bara per il corpo, alle stoccate di moglie e figlio contro la sua inettitudine a garantir loro un tenore di vita in linea con le aspettative della gente media – dai costosissimi giochi della Play Station ai normali progetti di una famiglia mediamente consumistica. È tutto graffiante, feroce, intollerabile – a scandirne quadri, sequenze, tesi e affermazioni -, ma poi la scrittura surreale e onirica – che li accomuna alla Piccola Compagnia Dammaco anche nella cifra recitativa: quanto c’è, in Renato Cane, dell’omino di “Esilio”, in cui pure si parla di un uomo medio rimasto senza lavoro, pur per tutt’altre vicende – patina tutto con una leggerezza, che nulla toglie all’efficacia della denuncia.

Quel che ne vien fuori è l’intenerito stigma di un uomo medio(cre), a cui all’improvviso viene diagnosticato un tumore asintomatico: non si sa dove, né perché, ma questo non disturba. Il patto narrativo, qui, è fondato sul grottesco, onirico, surreale, meraviglioso… e quel che incuriosisce è capire dove ci condurrà questo suo improbabile peregrinare come nelle stazioni di un assurdo gioco dell’oca. Ed è qui che si accendono il lazzo e la riflessione su come non lui solo è un morto potenziale – come lo apostrofa la moglie nel respingere le sue avances. E mentre la regia alterna piazzati a pioggia su Cane ad azioni suggestive in cui rimbomba il ticchettio del tempo e si accendono i led coloratissimi a scandire e ferire il buio cane, che lo circonda, è proprio lui, Re-nato Cane – il nome quasi un ossimoro con quell’augurio di una resurrezione a compensare la vita grama -, a diventare improbabile eroe nel suo goffo essere anti eroe. Eroe nel riappropriarsi del gusto di chiedersi cosa gli piaccia e cosa no in una galleria di personaggi ridicoli e grotteschi, che un eccellente Marco Vergani fa vivere a tutto tondo con una abilità straordinaria e convincente.