Aristofane, Cacciola e quel gracidar di rane

Frutto di uno sforzo produttivo, che ha visto coinvolti Elsinor Centro di Produzione Teatrale, Teatri di Bari e Solares Fondazione delle Arti, “Le rane”, da Aristofane, ha debuttato il 14 gennaio 2022 al Teatro Fontana di Milano – per poi stopparsi, come spesso capita, di questi tempi…

L’idea c’era

Progetto avviato prima che il mondo venisse travolto dallo tzunami pandemico, non fa meraviglia che quel verso/manifesto – “Sono sceso quaggiù a cercare la poesia, perché il nostro paese possa salvarsi” (Βάτραχοι, 1418) – sia lievitato a dismisura. L’intento? Ottimizzare e metter a frutto la rabbia, l’entusiasmo e la passione nel voler rivendicare il sacrosanto ruolo dell’arte come alimento (dello spirito) non meno primario e irrinunciabile di quel pane, del quale soltanto non si vive.

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Gli allievi di Brera durante l’allestimento delle scenografie

Di più. Viene recuperato l’originario spirito partecipativo dell’evento teatrale nell’antica Grecia: il teatro come fatto collettivo, anzi tutto; e, anche nel divertissement, si perseguiva un intento satirico ergo politico. Così il progetto si è da subito aperto in varie direzioni. Un workshop rivolto ai cittadini, senza limiti di età o pre requisiti di sorta, a costituire, di sera in sera, il coro; studenti e docenti dell’Università Statale di Milano e dello IULM (per la traduzione del testo), allievi dell’Accademia di Brera (per la costruzione delle scene). E poi l’immancabile call per artisti under 35, di cui pur si ironizza nello spettacolo.

La rana e il bue

Era il 405 a.C., quando debuttò la commedia di Aristofane. Già un paio di secoli prima, anche un altro greco, Esopo, nelle sue favole a sfondo morale scriveva di rane: “La rana e il topo” (sugli incerti esiti di certe pseudo amicizie, ma anche sull’imperscrutabile giustizia del Fato),“La rana e lo scorpione” (sull’inemendabile natura di ciascuno) e “La rana e il bue”. Proprio in quest’ultima si racconta di come, nell’impari sfida col ruminante, l’animaletto si gonfiasse a tal punto, da esplodere; ed è un po’ questa la sensazione che si ha, uscendo di sala.

Uno spettacolo a due tempi

Esito di una siffatta unione d’intenti, infatti, è uno spettacolo a due tempi – idealmente, giacché poi si tratta di un atto unico dalla ragguardevole durata di due ore filate. È la dicotomia fra lo yin del tentativo di riportare in scena la commedia antica (affidandola, com’era, a tre soli personaggi) e lo yang del coro dei cittadini. Il bianco della dimensione mitica della cultura greca (costumi giocati sulla bicromia bianco/oro) e il nero dell’oggi (nell’out fit minimal inaugurato dal teatro di ricerca, ma anche in quell’aurea catacombale, che, in fondo, non smette di significare che mala tempora currunt e tocca porvi rimedio). E, ancora: il nero nel bianco – il servo Xantia, figura mediana, nella scena della colorazione, viene dipinto di quel nero, che segna il coro dei cittadini – e il bianco nel nero – il fumo, che dice qualcosa da dipanare, ma racchiude anche la fragranza del sacro.

Teatro Fontana: "Le rane" - MilanoTeatri
Claudia Marsicano e Matteo Ippolito

A far da cerniera, il proclama, simil retorico-liturgico (“Idioti, cambiate metodo! Venga il miracolo della meraviglia […] della poesia […] la lingua misteriosa del desiderio e dell’osceno”) infarcito di tutto il buonismo, di cui già prima con la tirata contro il migliore quale categoria o l’invito ad un’accettazione/perdono urbi et orbi, che sa più di pietas che di certamen.

Gemelli diversi

Se l’uno può risultare drammaturgicamente un po’ stentato – nel troppo e troppo spesso retorico argomentare (ad esempio, su quale sia il reale senso dell’attualizzazione, salvo poi scivolare nell’equivoco che la sola dimensione dell’oggi possa esser quella di una colorita gergalità da facile stand up commedy) -, l’altro si rivela chiaro virgulto di una regia, che si è trovata a maneggiare consistenze e pesi specifici eterogenei.

Nonostante tutta una serie di facili ganci boccacceschi, la commedia antica (o, per lo meno, la porzione di essa, che si sceglie di rievocare, giocandola nell’ambito angusto della ribalta) brilla per l’interpretazione magistrale di Claudia Marsicano (Dioniso), ottimamente supportata da Lucia Limonta (il terzo personaggio). Fra loro è subito alchimia. Fisicità ostentatamente antitetiche (scelta, questa, anch’essa un po’ al limite del cliché); del tutto simili, invece, la versatilità attorale e la capacità di scivolare fra i registri del recitato. Reggono ottimamente la difformità dei linguaggi com’è apprezzabile, ad esempio, nell’accattivante nell’interpretazione swing/rap del celeberrimo coro Brekekekex koax koax. Accanto a loro, Matteo Ippolito (Xantia) risulta inevitabilmente messo un po’ in ombra, schiacciato, com’è, nel ruolo di ibrido e di spalla.

Le Rane al Teatro Fontana di Milano a - Milano | Groupon
Claudia Marsicano e Matteo Ippolito

Il secondo tempo, al contrario, implode nella convocazione del coro (disperso, fino a lì, in platea), per poi esplodere sul palco. A sipario simbolicamente e scenograficamente finalmente spalancato, assistiamo al proclama, che inaugura una lunghissima sezione di simil teatro danza, coronata da un baccanale catartico/liberatorio. Alla fine di questo soltanto i cittadini pare riescano a confessare sé e il proprio posto nel mondo – quasi che senza una dose di sacro furore non ci si possa riuscire; quasi che il teatro sia solo per addetti ai lavori e neofiti…

Uno sguardo d’insieme

Registicamente, alcune trovate risultano interessanti: una per tutte, la scena in cui i Dioniso e Xantia vengono posizionati ai lati estremi del claustrofobico proscenio e animati, quasi fossero burattini concavi, dal corifero/spitiro-del-teatro. Ben presto esausto per tutto quel correre, si rileva efficacissima metafora della fatica e del senso di vanità del teatro ai nostri giorni.

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Giorgia Favoti, Lucia Limonta e Francesco Rina

Al contrario, il pur stilisticamente mixato fiume di parole finisce col travolgerci, così come la ridondanza di segni e cromie – didascalici fino all’auto parlante – o del buonismo sempre latente, perfino in quelle, che vorrebbero essere stoccate. E, così, vien spontaneo chiedersi cosa ne sia di quella lingua misteriosa (del desiderio) e dell’osceno, invocata nel proclama; e se la sentenza “La commedia è esausta (lo spettacolo non esiste più)” non dica, in qualche modo, anche di questa commedia – pur nel formale tentativo di salvarla, volgendola in catarsi tragica

Eco disturbante

Sempre nel proclama, fra l’altro si dice: “Abbiamo bisogno di un un nuovo rito. […] Questo è il rituale del buio per sconfiggere la paura”. Ecco ciò che risulta disturbante, probabilmente ancor più del pur provocatorio epilogo, in cui non si capisce se l’attacco voglia essere al teatro in decomposizione o all’ancor più (de)composto pubblico.

Disturbante è tutta la seconda sezione, dove, più che di fronte a liberi cittadini nell’esercizio libero e consapevole del proprio diritto di partecipazione, par essere di trovarsi accanto a invasatila parola è “rubata” a quella lunga scena di danze sfrenate, in cui l’autore sembra scivolare da “Le rane” a “Le baccanti”. “Chi non è puro di spirito resta in silenzio, non prende parte al nostro rito” scorre, nel buio, sui monitor, mentre i coreuti in platea si alzano dimenanti, spronando gli attoniti vicini a fare altrettanto. Quasi che non possa esserci altro modo di vivere il teatro. “O tutto, o niente”, ”O con noi, o contro di noi” sembra risuonare in quel déjà vu da militanza politica o villaggio vacanze.

LE RANE DEBUTTANO AL FONTANA DI MILANO. INTERVISTA A MARCO CACCIOLA - GLI  STATI GENERALI

Disturbante è la facile ieratizzazione da effetti fumogeni e scenografici giochi di luce e ombra, inesorabilmente coronata dalla svestizione dell’attore/feticcio (poi dipinto come un idolo) e del suo succedaneo (il cittadino: anch’egli spogliato, mondato e mandato nel mondo a colorarlo).

Disturbante è la retorica di quel teatro-albero della vita, che gli allievi di Brera concepiscono già morto, la cui decostruzione non aggiunge nulla più che un ridondante diversivo.

Concludendo

Un florilegio di citazionidall’idolo/vittima sacrificale dipinto d’oro in scena nel Macbeth di Rifici, allo stravisto impietoso utilizzo di microcamere, alla Cuocolo/Bosetti o Romeo Castellucci, passando attraverso l’arcinoto de-strutturalismo di Latella o alle sue luci violentemente puntate contro il pubblico – ad usum degli abitués e di buone intenzioni, probabilmente; eppure chissà se tutto ciò riesca a deflagrare la quarta parete, uscire dagli incensi catacombali e raggiungere un pubblico profani. Vivo, morto o agonizzante che sia, un teatro che voglia (tornare ad) essere politico (da polis), deve anzitutto trovare il modo per scoppiare la sua stessa bolla: e chissà che un po’ di quella leggerezza, che non è superficialità non possa aiutare.